Alfredo Annina, donde vieni?
Annina Da Parigi.
Alfredo Chi tel commise?
Annina Fu la mia signora.
Alfredo Perchè?
Annina Per alienar cavalli, cocchi,
E quanto ancor possiede…
Alfredo Che mai sento!
Annina Lo spendio è grande a viver qui solinghi…
Alfredo E tacevi?…
Annina Mi fu il silenzio imposto.(Giuseppe Verdi, Francesco Maria Piave, La Traviata)
Da un capo c’è la servetta così ben descritta dal mio galateo degli anni ’50. Si chiama Assuntina o Erminia, a una certa ora domanda se può scendere a comprare il latte; è tentata «dall’intero corpo dei vigili urbani allogati nella caserma di fronte»; ama la saponetta alla rosa, la Nuit de Pompei, non gradita alla signora, che le procura, in alternativa feriale, «un sapone igienico, di modesto ma pulito profumo», consentendo che il sentore suddetto rimanga «per la ragazza quello inebriante della libertà e della domenica»; è distratta e, a fine faccende, dimentica lo strofinaccio su un vassoio e la scopa dietro la porta; ha nostalgia delle fiere paesane e «allinea i soprammobili come cianfrusaglie su quegli allettanti e confusionari banchi di vendita».
Dall’altro capo, c’è Mr Carson, il maggiordomo di Downton Abbey.
In mezzo, fra un capo e l’altro, c’è tutto il personale domestico, che potete chiamare come più vi piace e che, da che mondo è mondo, si prende cura di una casa e delle persone che ci abitano.
La vera signora, una borghese sposata a un professionista, è istruita da Elena Canino su vari fronti: come tenersi il marito; come educare i figli; come ricevere in casa; come comportarsi all’estero.
Anche come scegliere un amante, se proprio non ne può fare a meno.
La vera signora degli anni ’50 riconoscerebbe a fatica il personale di servizio odierno, avventizio, spesso impegnatissimo tale e quale a Marchionne quando Marchionne poteva impegnarsi, interessato alla propria vita molto più che a quella del suo datore di lavoro, protetto con ferie e contributi, volentieri in vacanza.
I tempi sono cambiati molto rapidamente e anche la gestione della casa si è dovuta adeguare.
E, tanto per fare un esempio, io non credo che ci sia più la necessità di essere serviti a tavola, help yourself, come dicono gli americani, oppure ci pensa direttamente la padrona di casa. Anche perché il servizio di un pasto è una cosa talmente complessa che non la si può insegnare in quattro e quattr’otto o in emergenza. Meglio scendere a patti con le cose che cambiano, ce lo dice l’esperienza e ce lo dicono i romanzi, i camerieri del catering spesso non riescono a infilare con disinvoltura la porta della cucina, del resto perché dovrebbero, è la prima volta che ci entrano.
Una cosa che mi ha sempre colpita nella narrativa è la presenza costante di un aiuto domestico anche presso persone con problemi di denaro.
Hemingway a Parigi, per esempio, andava ai Luxembourg gardens perché non c’era niente da annusare, laddove tutte le panetterie avevano delle cose talmente buone nelle vetrine e la gente mangiava sul marciapiede talmente felicemente che l’odore del cibo stava dappertutto, affamando lui, che non mangiava a sufficienza.
In questa situazione, poteva però permettersi una stanza dove lavorare, che, per inciso, stava nell’hotel dove era morto Verlaine, del vino buono anche se a buon prezzo, alcuni viaggi, non poche scommesse ai cavalli.
E una servetta.
Cose che, al giorno d’oggi, chiunque di noi considererebbe legate a una qualche forma di lusso.
Comunque le descrizioni della povertà da parte di Hemingway sono talmente poetiche, che non dico che ti fanno venire la voglia di essere povero, come se ce ne fosse bisogno, ma ti fanno sopportare la tua, di povertà, con un diverso stato d’animo: «Ma poi noi non ci consideravamo mai come poveri. Non lo accettavamo. Pensavamo di essere persone superiori e le altre persone, che guardavamo dall’alto in basso e di cui giustamente diffidavamo, erano ricche».
Un po’ come Sartre e de Beauvoir, che, poco tempo dopo, passavano davanti a Fouquet’s o a Maxim’s considerando degli esclusi i loro clienti e non se stessi.
Scrivere, creare, questo era lo scopo della loro esistenza.
E aggiungo qui che probabilmente il senso della ricchezza intellettuale, che compensava quello che mancava all’appello della ricchezza delle tasche, che erano très plates, molto piatte, dunque, vuote, veniva loro anche dalla città.
Personalmente, mi sono sempre sentita povera a Londra, anche quando, a rigore, non lo ero, e mai a Parigi, che per me conserva da sempre il senso della bohème, che lì sembra aver trovato il terreno giusto sul quale attecchire.
Basta aver fatto le letture giuste e aver ascoltato la musica che loro meglio conviene.
Ricordo inoltre che Sartre e de Beauvoir vivevano in hotel, dunque, che nel costo della stanza era compreso anche il servizio.
La serva più simpatica di tutta la storia della servitù è la Natalina. Che assomigliava a Luigi undicesimo, «piccola, gracile, col viso lungo, i capelli a volte ravviati e lisci, a volte sontuosamente arricciati col ferro».
Abita le pagine del Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, è un fulmine, perché faceva «i lavori di casa con una rapidità straordinaria» ed è «”un terremoto” perché faceva tutto quanto con violenza e rumore».
La Natalina aveva avuto un’infanzia difficile, era orfana ed era «cresciuta tra orfanotrofi ed ospizi, poi al servizio di padrone impietose».
Quelle sue «antiche padrone» le davano schiaffi che le facevano «dolere la testa per più giorni».
Lei ne aveva nostalgia e a Natale scriveva loro «sontuose cartoline dorate».
(Sono ancora lontani i tempi della colf).
La Natalina non aveva mai un soldo in tasca perché faceva prestiti alle amiche con cui usciva la domenica.
E aveva qualche problema con la lingua italiana, soprattutto con il lui e il lei: «Meno male che lui è una signora, se no come farebbe a guadagnarsi la vita, lui che non è buona a fare niente…Lui chi? – Lui, lei, lei!».
Mica facile, raccapezzarsi (non abbiamo forse, in apertura, parlato di capi, e il raccapezzarsi non significa, appunto, trovare un capo) con il lui e con il lei.
Del resto, è inconfutabile che la signora in questione, la Lidia, cioè Lidia Tanzi, madre di Natalia e moglie di Giuseppe Levi, fisico maestro di tre premi Nobel, sapesse fare poco o niente.
Però era simpaticissima e la sua presenza riempie di calore e di umanità le pagine di uno dei più bei romanzi del Novecento italiano.
E la Natalina la amava teneramente, anche se intratteneva con lei «un rapporto burbero, sarcastico e niente affatto servile».
Roma, piazzale Flaminio, fine novembre, ore 14:30.
A causa della chiusura dell’uscita che utilizzo di solito, esco dalla metropolitana dall’altra parte della strada.
Nuvole grigie si addensano sopra la mia testa.
Se mi dice bene, arrivo in Accademia senza bagnarmi.
Al semaforo due donne, evidentemente musulmane, con un bambino piccolo piccolo in carrozzina, mi guardano quasi implorandomi.
Chiedo se hanno bisogno di qualcosa, se posso aiutarle.
Si illuminano.
Mi mostrano una chat WhatsApp, hanno un appuntamento alle 15:00 in via Luciani e un numero di telefono.
Sono marocchine.
Chiedo se vogliono che chiami io per avere più informazioni.
La luce nei loro occhi si fa ancora più brillante.
Chiamo e mi presento.
Mi risponde una donna.
Mi chiede chi sono.
Mi ri-presento.
Dico che passavo per fatti miei da piazzale Flaminio e che le due signore hanno bisogno di ulteriori indicazioni.
Tram, è lì a un passo. Devono scendere a Belle Arti; fare a piedi un tratto di viale Bruno Buozzi; arrivare a piazzale Don Minzoni; imboccare via Luciani.
Mi sembra un percorso talmente complesso che non riuscirebbe a ritrovarcisi nemmeno «un romano de Roma».
Tiro fuori dalla cartella una fotocopia del Programma di Storia dell’arte contemporanea, la giro, dico di girarsi anche alla donna più giovane, lo faccio sempre con gli studenti, quando mi serve un supporto rigido per scrivere e siamo in una situazione precaria, una schiena è una soluzione migliore di una scrivania da campo.
Prendo dall’astuccio una matita e scrivo i passaggi più chiaramente che posso.
Segno le tappe: 1. Belle Arti; 2. viale Bruno Buozzi, a piedi; 3. piazzale Don Minzoni.
Dico chiedete aiuto appena ne avete bisogno, dico chiedete a una donna, le donne si riconoscono perché accolgono e provano compassione (poi ne parliamo).
Chiedo che cosa vanno a fare a via Luciani.
La più giovane mi dice più o meno che le hanno offerto un lavoro come domestica.
Nemmeno so immaginare come possa essere lavorare in questo senso con la madre e il bambino a carico e una conoscenza dell’italiano quasi nulla, i diverticoli senza fine di una casa, i vetri, le tende, la reversina ricamata del lenzuolo, i libri e le riviste, le mensole della stanza da bagno.
I cuscini del divano.
Il balconcino e le sue piccole piante.
I segni di una cena.
La biancheria che non si tocca.
Ci abbracciamo in mezzo a piazzale Flaminio.
Auguro loro ogni bene e vado dai miei studenti.
Loro mi benedicono, non so se i musulmani benedicano, come facciamo noi, le persone, ma questa è stata la mia impressione.
Mando un pensiero alla mia domestica, che, per quanto capricciosa, autoprotettiva, ipocondriaca, incapace nei giorni di sciopero dei mezzi pubblici di arrivare in macchina fino a casa mia sebbene io le prometta il mio garage come parcheggio, almeno è calabrese e almeno con lei mi capisco.
In ordine sparso.
La mia governante ideale sarebbe l’Annina che vi ho messo in apertura, che è sagace e distingue al volo per Violetta l’amante, chiamiamolo così, utile, ovvero il barone Douphol, dall’amante del cuore, quell’Alfredo che non è che abbia capito del tutto che cosa significa avere a che fare con una traviata di quelle autentiche.
Annina fedele fino alla fine, pure alla faccia dei rovesci di fortuna e degli scioperi dei mezzi pubblici.
Ma questi tempi non sono più i nostri e bisogna far fronte a nuove situazioni.
Però vi dico subito che intendo andare, storicamente, avanti e indietro e indagare il complesso rapporto fra le persone e coloro che offrono loro i propri servizi, dai servi che nel medioevo dormivano a terra nella stanza dei proprietari del castello, stando così al caldo e assicurandosi pasti decenti, alla molto sfaccettata relazione fra Don Giovanni e Leporello, padrone e servo, che in Mozart/Da Ponte sono entrambi interpretati da un baritono e che si scambiano pure ruoli e abiti.
Su tutto questo un pensiero di riconoscenza per tutte le domestiche (e pochi domestici, tutti di passaggio) che si sono occupati delle mie case in vita mia, dandomi la possibilità di occuparmi di altro, per esempio, come in questo caso, dello studio e della scrittura.