«Che cosa comporta, esattamente, essere un uomo, uno vero? Repressione delle emozioni. Far tacere la propria sensibilità. Avere vergogna della propria delicatezza, della propria vulnerabilità…Non domandare aiuto. Dover essere coraggioso…Dare prova d’aggressività. Riuscire socialmente, per pagarsi le donne migliori…».
Se lo dice lei, Virginie Despentes, scrittrice e punk, avrà ragione. Ho un po’ pulito queste sue dichiarazioni, anche perché di altro, come, per esempio, di dimensioni e capacità performative, lascio discutere lei, omosessuale e femminista, che avrà senz’altro fatto l’esperienza di ciò di cui parla.
Siamo in King Kong théorie, e siamo ai nostri giorni.
Ma che relazione hanno gli uomini fra di loro quando la storia li porta a essere uno padrone e l’altro servo?
Ricordiamo intanto che le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, romanzo frutto di una totale identificazione fra scrittore (scrittrice) e soggetto della sua narrazione, identificazione alimentata dalla frequentazione dei luoghi da quest’ultimo abitati, rimasti così densi di memoria, ricordiamo, dicevo, che questo, che è uno dei testi più noti e amati del Novecento, esordisce, riga quattordicesima, con la frase: «è difficile rimanere imperatore in presenza di un medico».
Figuriamoci in presenza di un servo.
Vediamo come se la sono cavata qui e là quelli che ci si sono trovati.
Di solito si dice che dietro un grande uomo c’è una grande donna.
Raccogliendo un po’ di materiale sull’argomento, mi accorgo che spesso, però, dietro un grande uomo, c’è un altro grande uomo.
Queste sono alcune coppie, perché di coppie pur sempre si tratta, che ho tirato fuori dal cilindro della mia memoria.
Prospero & Calibano. William Shakespeare scrive La Tempesta nel 1611. Si dice che l’ispirazione per la trama gli venisse da un naufragio veramente accaduto poco tempo prima, quello della Sea Adventure, il cui ammiraglio e il cui equipaggio scomparvero in mare per ricomparire un anno dopo a Jamestown, Virginia, avendo trovato riparo e cibo alle Bermuda.
Qualcuno suggerisce che l’opera di Shakespeare sia un’allegoria dell’epopea coloniale e della relazione fra master e servant.
Prospero, duca di Milano, è un mago, quindi con lui non c’è da scherzare.
Inoltre Calibano ha tutte le sventure dalla sua parte: è figlio di una strega, è uno schiavo selvaggio e deforme, un personaggio strano, un essere ibrido, legato al mondo vegetale.
E ha uno spirito ribelle, detesta Prospero e per tutta l’opera spera che muoia. Fra i due il rapporto è aspro, il padrone chiama il servo slave e demi-devil.
Nessuna alleanza fra loro.
Reinventa il mondo shakespeariano e consola Calibano di tutte le sue pene Odilon Redon, grandissimo fra i simbolisti francesi, che lo rappresenta lungo tutta la sua carriera, arrivando a citarne il sonno nella fase di passaggio al colore.
Questo gnomo dai grandi orecchi si è addormentato ai piedi di un albero, appoggiando il braccio a un tronco bianco. Tre piccoli volti sospesi nell’aria lo sorvegliano e uno di questi è Ariel, l’altro servo di Prospero, che è venuto a spiarlo.
I colori sono bellissimi: il blu intenso del cielo, il verde delle foglie, e poi il rosso e il viola dei fiori, un sogno, pieno di poesia e di mistero.
Anche Guido Crepax offre il suo contributo alla vicenda di Calibano, dando il suo nome a uno scimmione che popola un altro sogno, quello di Bianca, l’eroina adolescente attraverso la quale arrivai a conoscere quello che per me rimane il più grande disegnatore di fumetti italiano.
Vi faccio vedere un’immagine scattata con il mio telefono andando a recuperare il mio prezioso album, che da ragazzina tenevo nascosto e al quale sono legatissima.
Sarebbero passati anni e gli avrei dedicato la mia tesi di Perfezionamento.
Ve l’ho detto, no, che sono una abitudinaria e fedele fino all’impossibile.
Robinson & Venerdì. Uno dei più straordinari romanzi di avventura di tutti i tempi ha compiuto trecento anni. Tradotto, imitato, adattato, citato, evidentemente, oltre all’avventura, l’invenzione di Daniel Defoe contiene in sé anche altro, per esempio la grande metafora della solitudine universale.
Robinson Crusoe ha fatto pure lui naufragio, pure lui su un’isola di cui non conosce l’ubicazione. Ci resterà ventotto anni, dodici dei quali trascorsi da solo, cercando di sopravvivere alla natura selvaggia e piena di pericoli e, ovviamente, a se stesso.
L’incontro con Venerdì, che salva da una morte atroce per mano di cannibali, gli offrirà un aiuto, un alleato e uno specchio e poco importa se pure qui traspare un’allegoria dell’età coloniale e se i ruoli sociali sembrano fin troppo delineati.
Del resto Crusoe se ne andava per mare per catturare africani da rendere schiavi, ora lo schiavo se lo trova consegnato a domicilio.
Vivere, anzi, sopravvivere, a oltranza.
E per chiunque abbia letto il romanzo, fosse pure in una riduzione o servito per la sceneggiatura di un film, anche la possibilità di imparare la geografia di mondi lontani, oltre che quella della propria anima.
La nostra modernità, ovvero la nostra solitudine diventata ancora più cosmica, credo che sia ben rappresentata dal film Cast Away, in cui un bravissimo Tom Hanks, è il caso di dirlo, ridotto all’osso, interpreta la parte di Chuck Noland, brillante ingegnere informatico di Memphis, che, nel corso di un viaggio di lavoro in Malaysia, precipita con l’aereo nel Pacifico e riesce a salvarsi, unico superstite, approdando a un’isola.
Qui rimarrà quattro anni, avendo come unica compagnia un pallone, cui ha dato un volto umano con un’impronta di sangue della sua mano e un nome: Wilson.
Vi metto la sequenza della perdita in mare dell’amico del cuore, così casomai state più attenti alle vostre cose e ai vostri affetti.
Il film di Robert Zemeckis, campione d’incassi, testimonia la classicità dei temi affrontati da Defoe tre secoli prima: la fame di avventura, i rischi del viaggio, l’animalità dell’istinto di sopravvivenza.
L’importanza dell’amicizia.
Il ruolo del pallone nella vita di un uomo.
Faust & Mefistofele. Drôle de ménage, per dirla con Rimbaud. Qui non si capisce più chi è servo e chi è padrone. Faust, o Faustus come in Marlowe, vuole dominare il mondo e per questo vende l’anima a Mefistofele per ventiquattro anni. Sappiamo come sarebbe andata a finire, anzi, lo sa anche lui, però non ha potuto fare a meno di giocare col fuoco.
Protagonista di un racconto popolare tedesco, il personaggio non ha mai smesso di affascinare chiunque voglia confrontare la propria intelligenza con il mondo.
Goethe dedica al suo Faust sessant’anni di vita e ne fa l’opera più importante di tutta la sua produzione.
Io amo molto anche la versione romantica che dà del capolavoro Berlioz, che nel 1846 manda in scena a Parigi, dirigendola lui stesso, la sua Damnation de Faust.
Il compositore avrebbe lamentato l’indifferenza del pubblico e avrebbe definito la rappresentazione «un fallimento».
Morto Berlioz, però, l’opera si affermò come uno dei maggiori successi di tutti i tempi.
E ti credo.
Nessuno più di Berlioz ha meglio compreso Goethe.
Com’è, allora, il nostro Faust? Un tenore, tanto per cominciare, pronto a suicidarsi, piuttosto annoiato dalla vita, incapace di godere dei piaceri semplici, sensibile al canto e ai ricordi d’infanzia.
E Mefistofele? Un baritono, di solito fascinosissimo, capace di deridere ogni speranza.
Si beve vino del Reno, si va in una taverna di Lipsia (dove è messa in scena «la bestialità in tutto il suo candore»), c’è una donna, Marguerite, stregata da Mefistofele attraverso gli Spiriti del Fuoco, che si getta nelle braccia di Faust, c’è la sua disperazione perché lui non ritorna, c’è lui che invoca la Natura, che, romanticamente, è l’unica a poter colmare le sue aspirazioni.
E c’è il demone che presenta il conto alla prima occasione e che, in un tripudio di spettri, di grandi uccelli e mentre scoppia un terribile temporale, comanda alle legioni dell’Inferno di cominciare l’orgia.
Faust è precipitato negli abissi.
Voleva dominare il mondo attraverso il suo servo e il servo ha fatto scempio di lui.
Visto che siamo in atmosfera romantica, vi propongo una delle diciassette illustrazioni che Delacroix ha fatto per la traduzione del Faust.
E vi porto fino a Harry Clarke, irlandese, che molto amò rappresentare l’immaginario che circonda il Faust e che nel 1926 pubblicò la sua interpretazione dell’opera di Goethe, anticipando così gli umori psichedelici degli anni ’60 del secolo scorso.
Mandrake & Lothar. Prima coppia multirazziale dei fumetti, è stata creata negli anni ’30 da Lee Falk, che si è ispirato a un vero illusionista, il Mago Cardini, e gli ha affiancato un gigante nero succintamente vestito, principe di nascita, incontrato in Africa.
All’inizio della sua lunghissima carriera il mago ha poteri quasi illimitati, resuscita i morti, trasforma gli uomini in topi, salva da una caduta in un orrendo precipizio il suo amico, mutandolo in aquila.
Poi, quanto a poteri, si dà una calmata, nel senso che diventa un «semplice» illusionista, che usa la sua abilità per uscire sano e salvo, e vincente, da una quantità inenarrabile di intrighi e di avventure.
Disegnato da più autori dopo la morte di Lee Falk, che comunque lo aveva già affidato alla matita di Phil Davis, riservando a sé tutto il gusto dell’invenzione, Mandrake ha anche un cuore, quindi si innamora della principessa Narda, che viene dallo stato di Cockaigne, che non può non suonare come Cuccagna.
Lei ha tentato di avvelenarlo, ma poco importa, vivranno insieme più o meno felici e contenti e l’unica vendetta del mago sarà di tardare parecchio a sposarla, impalmandola nel 1997, laddove si erano incontrati ben sessantadue anni prima, nel 1935.
Che cosa ci insegna questa vicenda? Che gli uomini, prima o poi, capitolano e che le donne devono destreggiarsi a rimanere giovani e belle come in un fumetto.
E succintamente vestite, che è meglio.
Su, su, con un po’ di buona volontà, ci si riesce.
E poi, non sono forse un po’ maghe anche tutte le donne?
A un certo punto il terzetto Mandrake, Lothar e Narda andrà ad abitare a Xanadu, residenza situata in cima a una montagna che farebbe l’invidia di Diabolik, con la sua mania di ficcarsi sempre in uno dei suoi rifugi, e anche di quell’eccentrico Mr Kaufmann, che si fece costruire da Wright la sua casa sulla cascata in Pennsylvania.
Per prima cosa, non contate su di me per l’approvazione di abitazioni come queste.
Anzi, che resti fra noi, meglio Mandrake che Mr Kaufmann, il mago, almeno, vive in un posto del genere nella nostra fantasia.
E se si è dimenticato di comprare il pane, manda il suo chef giapponese Hojo a rimediare.
Mr Kaufmann, manco per niente. Al pane dimenticato deve rimediare da solo.
Inoltre, sta pure all’umido.
Sempre.
Per non parlare del rumore di tutta quell’acqua che casca da tutte le parti.
Comunque, nella residenza di Xanadu arriva presto anche Karma, cugina di Lothar, pure lei principessa.
Lei esercita anche la professione di supermodel, ammesso che tale professione sia tale.
Ciò che a noi interessa è che Lothar comincia qui a vestire abiti un po’ più castigati, voi pensate che certe volte arriva perfino a indossare una mitica camicia bianca.
I due uomini, comunque, hanno avuto una grossa storia e una grossa evoluzione.
Lothar all’inizio della sua carriera parla un inglese approssimativo e ricopre praticamente un ruolo di assistente.
Poi diventa the best friend del mago e si esprime in modo civilizzato ed evoluto, cancellando praticamente ogni sospetto di razzismo.
Rimanendo, però, così esotico, vuoi per l’incomparabile forza fisica, ricordiamo che è capace di sollevare un elefante con una sola mano, vuoi per alcuni tratti della persona.
Maculato era, quindi, selvaggio, e maculato rimane.
E al mondo, e alle donne, il selvaggio piace tanto.
Insomma e in chiusura di questo mio primo approccio alla relazione fra padrone e servo, maschi entrambi: mi pare che gli uomini, una volta di più, ne escano bene.
Storicamente, evolvono, passando dalla relazione padrone potente/schiavo deforme e quella di amici per la pelle.
Mica come noi donne.
Sempre pronte a lacerarci una con l’altra.
Non starà forse qui, oltre che in tanti altri posti, la nostra secolare e (ormai) noiosissima insicurezza?
Proprio come la Marguerite di Faust, personaggio che, comunque, a me piace molto e che canta come nessun altro il desiderio dell’amore e della sua ardente fiamma.
O come Narda, procace, sempre poco vestita, principessa, sì, però, che lagna, stare ad aspettare che il mago la guardi e la infili in una sua storia.
E le dia, finalmente, un senso e una ragione per stare al mondo.