Jean-Etienne Liotard, Dama vestita alla turca e cameriera, 1742

Relazioni morbide, quelle che intrattengono fra loro le donne.
Anche nel senso originario del termine, malsano, da morbus, perfettamente conservato, per esempio in francese, morbide.
Relazioni mai statiche, in spostamento continuo, madre e figlia, sorelle, cognate, amiche.
Serva e padrona.
Qui, poi.
Alleate o rivali, a turno e a seconda di come tira il vento.
E ciò soprattutto fino a quando il padrone di casa, marito della signora, poteva permettersi di prendersi con il personale di servizio delle libertà oggi diventate, per forza di cose, meno frequenti.
Vediamo di mettere nero su bianco qualche appunto.

Iniziamo con il ricordare, se ce ne fosse bisogno, che gli ambienti sono sempre sessuati.
La regola generale è che tutto ciò che sta dentro è femminile e tutto ciò che sta fuori è maschile (non mi sembra un caso).

Smoking Room First Class Titanic

A cominciare dagli ambienti della casa, per cui, per esempio e come è noto, alle donne è da sempre consentito, anzi, consigliato, stare in cucina e agli uomini sono riservate per tradizione la stanza dove si fuma e si bevono liquori.
Le signore, dopo il pranzo, possono sostare nella Drawing Room (to withdraw = ritirarsi), in santa pace.

Drawing Room vittoriana

Pochi dubbi sulla biblioteca e lo studio, locali maschili per eccellenza. Sentivo ieri alla radio una studiosa che aveva inventariato gli studi degli scrittori, maschi e femmine, notando la differenza: inaccessibili, quelli degli uomini; sempre aperti quelli delle donne.
(Se ne potrebbe dedurre che le donne non bastano mai a se stesse, nemmeno quando studiano, scrivono, creano).

Anche la città ha spazi maschili e spazi femminili.
Voi pensate al permanere, anche oggi e nelle grandi metropoli, del divieto inespresso per una donna di andare da sola in un Cocktail Bar.
Una donna, se proprio vuole ubriacarsi, lo deve fare in compagnia.
Per secoli l’accesso allo spazio pubblico per le donne perbene è stato controllato e limitato.
E qui entra in gioco il ruolo della domestica: meno sorvegliata della padrona, ha possibilità di movimento fra dentro e fuori.
E da fuori arriva sempre qualche notizia interessante.

Ce lo racconta molto bene Johannes Vermeer in tutta una serie di quadri preziosi in cui compaiono due donne, rappresentate, in questo primo caso, una, da un liuto, l’altra da una scopa.

Johannes Vermeer, La lettera d’amore, 1667

Potere della sintesi in un artista straordinario.
In un interno prospetticamente complesso, con ambienti che si incastonano uno dentro l’altro, entrano in relazione la padrona e la serva.
Quest’ultima ha lasciato gli zoccoli accanto alla scopa e, facendosi strada fra la cesta del bucato e il camino, ha consegnato la missiva del titolo.
Lo stato d’animo dell’altra (per una donna c’è sempre l’altra) è espresso dal dipinto di sfondo, un mare in tempesta.

Vi propongo una Galleria di particolari.

Ora, noi potremmo, in un gioco di specchi, chiederci se vorremmo essere più nei panni dell’una o dell’altra.
Certo, la padrona fa una vita noiosissima, sospesa al liuto come negli anni ’70 le donne stavano sospese al filo del telefono. Parere, questo, di Diane von Fürstenberg, gentile signora che in quel periodo, meno che trentenne, si ritrovò divorziata, nobile, ricca e libera nei movimenti.
(Oggi il telefono ce lo portiamo tutti dietro, per cui l’effetto-liuto, almeno quello, è superato).
Dall’altra parte, la serva fa un lavoro mai riconosciuto in tutto il suo peso sociale. E ciò, da sempre.
Come ci fa notare un filosofo tedesco, donna, in un articolo in cui mette in evidenza come lei possa lavorare grazie a tutte le donne che lavorano per lei, in una società che premia la produzione e non la riproduzione.
Pure Marx si è dimenticato di parlare della cucina, della pulizia della casa, della cura delle cose e delle persone, insomma, nella visione del mondo del grande collega dell’autrice i lavori domestici non hanno trovato spazio.
Evidentemente, non se ne occupava lui personalmente.
Se vi interessa questo argomento, lo trovate qui, nella bella rivista di filosofia del lavoro on line cui sono abbonata, che affronta temi che più moderni non potrebbero essere.

Ma torniamo al liuto e alle sue metafore.

Johannes Vermeer, Donna che scrive una lettera con la sua cameriera, 1670

Qui la signora scrive una lettera e la cameriera guarda fuori dalla finestra, dove sta il mondo, quello nel quale queste donne costrette agli arresti domiciliari vorrebbero essere.

L’illusione della realtà è totale, le figure quiete e inattive contribuiscono a rendere ancora più misteriosa l’atmosfera.
Occhio ai dettagli in primo piano, un sigillo rosso, un bastoncino di ceralacca e un oggetto che è probabilmente un manuale di scrittura, molto in voga all’epoca per la corrispondenza personale.

E, come in un racconto a puntate, ecco la signora che riceve una lettera dalla cameriera.

Johannes Vermeer, Donna e cameriera con una lettera, 1667

Le due donne qui intrecciano una relazione di commento davanti al fatto e siamo convinti che sia questo il vero tema del dipinto, che, a una prima occhiata, sembra essere dedicato a un interno domestico.
Il virtuosismo tecnico dell’artista lascia sbalorditi, nell’abito giallo di lei, nei riflessi di luce sul vetro resi con pennellate più corte, nei punti di impasto lasciati cadere sulle onnipresenti perle per definirne i bagliori.

Johannes Vermeer, Donna e cameriera con una lettera, 1667, part.

E guardiamo insieme l’atteggiamento della padrona, ritratta in un movimento che esprime in modo impareggiabile l’attesa, la mano portata al mento, la bocca che è sul punto di parlare, lo sguardo rivolto alla domestica, che però la supera e che va oltre.
Con questo fuoriclasse, come con tutti i fuoriclasse, non c’è gara.
Volendo essere impietosi, vediamo insieme la differenza fra Vermeer e Emanuel de Witte, suo contemporaneo, anch’egli alle prese con un interno con due donne e uno strumento musicale.

Emanuel de Witte, Ragazza alla spinetta, sec. XVII

C’è poco da fare.
Dovendo stare chiuse in un interno, per quanto lindo e pinto come solo gli interni olandesi sanno essere, meglio stare appese al liuto di Vermeer che alla spinetta di de Witte.

Ma il vertice più alto della relazione serva/padrona è raggiunto da Mozart/Da Ponte ne Le Nozze di Figaro.
Tento una sintesi dei quattro atti.
Tre anni fa Figaro, già Barbiere di Siviglia, proprio come sappiamo da Rossini, ha aiutato il Conte d’Almaviva, giovane e ardente, a sposare Rosina, divenuta la Contessa.
Ma ora il Conte si è invaghito di Susanna, la cameriera della Contessa, promessa sposa di Figaro e su di lei vorrebbe esercitare lo ius primae noctis.
Nel corso della folle giornata, altro titolo dell’opera, in un intreccio di fatti e colpi di scena, in cui tutti si contrappongono a tutti in situazioni ora drammatiche, ora comiche, si vedrà che i servi sono più nobili dei padroni. Del resto il gagliardo personaggio di Figaro apre a nuove possibilità storiche e sociali.
La vicenda è anche metafora delle diverse fasi dell’amore: Cherubino e Barbarina stanno a rappresentare l’amore ancora acerbo; Susanna e Figaro, l’amore che si installa; il Conte e la Contessa, l’amore stanco; Marcellina e don Bartolo, l’amore adulto.

Massimo Mila, Lettura delle Nozze di Figaro, 1979

Insomma, ce n’è per tutti.
E fra tutti a noi qui interessa la relazione Contessa/Susanna.
Chiedo ancora una volta aiuto a Massimo Mila e alla sua bellissima lettura delle Nozze.
Pure questa, se la capisco io, la capiscono tutti. Ancora una volta lascio da parte i passaggi troppo tecnici e mi occupo dei sentimenti.

Atto III scena ottava
La Contessa, da sola. Inizia qui la sua riscossa e la strategia di riconquista del marito. La partita fra il Conte da una parte e Susanna e Figaro dall’altra si è conclusa con la vittoria dei servi.
La Contessa aspetta Susanna, con la quale c’è stato uno scambio di abiti perché possa andare lei stessa all’appuntamento che il Conte ha dato alla ragazza, in giardino, di notte.
C’è un breve recitativo nel quale esprime anche l’umiliazione nel dover cercare aiuto in una serva, lei che già è stata offesa dallo sposo con un misto inaudito di infedeltà, di gelosia, di sdegni.
Poi la Contessa attacca l’aria più bella mai scritta sulla delusione d’amore, Dove sono i bei momenti, una di quelle cose che ti fanno piangere anche a distanza di anni da quella delusione e da quell’amore.
L’aria è semplicissima, naturale, purissima.
Massimo Mila scrive: «Ispirazioni come quella di quest’aria tolgono la parola al commentatore per la loro semplicità. Bisognerebbe sapersi elevare con la parola ad altezza lirica pari a quella delle musica…Qualsiasi pretesa di analisi stona in presenza di questa pagina, elementare e sublime».
Se la pretesa di analisi non ce l’ha lui, figuriamoci se ce l’ho io.
Dunque la contessa rimpiange la felicità che non c’è più, ma qualcosa la scuote dalla sua tristezza ed è qualcosa che conosciamo tutti e che si chiama speranza.
«Forse non tutto è perduto».
C’è uno scatto, c’è energia.

Atto III scena decima
La Contessa e Susanna. Le due donne perfezionano il progetto di invitare il Conte in giardino. La Contessa andrà al posto di Susanna.
È arrivato dunque il nostro momento, quello della lettera, sì, perché anche qui c’è una lettera.
La Contessa detta, Susanna è riluttante perché teme di compromettersi con la sua scrittura proprio nel giorno delle sue nozze con Figaro.
La Contessa vince la sua resistenza.
La lettera è breve, sobria ed è stilata sotto forma di canzonetta, Canzonetta su l’aria.

Ci sono due voci femminili, qui Rosa Feola e Carmela Remigio, Susanna e Contessa, che si inseguono in eco, voluttuosamente, su una musica che è «divinamente ambigua e ambivalente», gioiosa, malinconica, non sapremmo dirlo, certo è che le due donne, così diverse e così lontane socialmente, serva e padrona, qui si uniscono in un canto in cui «si ravvivano tutti gli spiriti segreti della seduzione che aleggiavano intorno a quei luoghi notturni».
Dunque le due donne si uniscono, come sempre fanno le donne, nel complotto e nella voluttà.

– Certo, il capirà! (le donne pensano sempre che gli uomini capiranno. Poi, però, come diceva il mio studente, bisogna vedere da vicino).
Già sentiamo nell’aria i profumi del giardino, che stanno per saturare la grande scena finale dell’opera.

Voi ricordate Le ali della libertà?

Quel film bello e terribile, che aveva come protagonisti Tim Robbins e Morgan Freeman e che narrava un errore giudiziario con la vicenda di un bancario, Andy Dufresne, ingiustamente accusato dell’omicidio della moglie e dell’amante di lei e condannato a due ergastoli.
Ci sarà un’evasione, però, prima, in un momento in cui il detenuto Andy trova un disco delle Nozze di Figaro e diffonde l’aria della Contessa e di Susanna per tutto il carcere attraverso gli altoparlanti, ci sarà già la possibilità di fare l’esperienza di una vita diversa, libera e capace di volare alto.

Elizabeth Schwarzkopf e Anna Moffo

Qui le voci delle due donne sono di Elisabeth Schwarzkopf e di Anna Moffo, lo dicono i titoli di coda del film.

Le donne sono sempre gelose una dell’altra, orrendamente.
Più giovane, più esperta; più bella, più seducente; più fragile, più forte; più ingenua, più realizzata; più disarmante, più brava.
Mi chiedo sempre che rapporto abbiano fra loro due primedonne che si trovano, giocoforza, a dividere la scena a questi livelli.
Tanto più se una interpreta il ruolo della padrona e l’altra quello della serva, se si trovano a rispecchiarsi una nell’altra, come sempre accade alle donne, nell’esistenza così come nell’invenzione dell’arte, che cosa passa loro per la testa.

Forse e nel migliore dei casi, e mi piace pensarlo, un violento e corroborante fremito di vita.
Come se la vita fosse anche questo, l’incontro fra due donne che si affrontano, meglio se nel nome di Mozart.
Se poi a quello del magnifico musicista aggiungiamo anche quello del paroliere, scusate, del librettista, ancora meglio.
A me, che vivo di parole, Da Ponte sta infinitamente caro e molto mi diverte pensare a quanto devono essersi divertiti loro, due uomini, a leggere nel cuore di noi donne.
E a esprimerlo, quel cuore, in modo così magistrale, praticamente meglio, se solo ne fossimo state capaci, di come lo avremmo espresso noi.