Pitocchi.
Il mondo è pieno di pitocchi, anche metaforici.
Essi sono ricoperti di stracci, come è giusto che sia.
L’arte mette in scena i pitocchi da un certo momento in poi, li prende a soggetto, c’è anche un pittore che si chiama Pitocchetto, un lombardo settecentista che ha dipinto solo pitocchi.
Facciamo che ci occupiamo di loro e dei loro stracci un’altra volta e che adesso concentriamo la nostra attenzione su coloro che sono caduti in disgrazia e che si sono ritrovati ad avere a che fare con gli stracci a un certo punto della loro esistenza.
Voi conoscete la favola di Pelle d’asino, che da principessa diventa guardiana di porci per sottrarsi alle eccessive attenzioni paterne.
Guardiana di porci, una cosa evangelica.
Dunque la bella principessa si ritrova a nascondersi sotto uno straccio di pelle d’asino.
Resta il fatto che lei, quando ha finito la sua giornata di guardiana di porci e si ritira nella sua stamberga, indossa i suoi abiti regali e passa così una serata diversa.
E ci sarà un principe a salvarla, tanto per cambiare. Lei lo incontrerà preparando per lui un cake d’amour, nel quale farà scivolare un anello.
Vi propongo la ricetta dal film di Jacques Demy, con un’incantevole Catherine Deneuve.
Noi donne dovremmo consultare più spesso i libri di cucina e cuocere nel nostro forno dolci amorosi, ci libereremmo degli stracci, soprattutto mentali, che sempre ci ricoprono.
(Parlo per me, ma forse anche per voi).
Tale e quale a Pelle d’asino, caduta momentaneamente in disgrazia, la Venere degli stracci di Pistoletto sta, lei divina, in una situazione difficile.
Stracci le stanno davanti, verso gli stracci lei è voltata e mostra a noi la sua bellissima schiena, le natiche neoclassiche, le gambe, il collo.
L’artista prende una copia della Venus di Thorvaldsen e la mette in relazione con questi scarti del mondo, non più utilizzabili per lo scopo per il quale erano stati pensati ma comunque suscettibili di avere un’altra vita.
L’industria riutilizza gli stracci per fare la carta e per rigenerare la lana e il cotone, noi in casa sappiamo quanti stracci adoperiamo e il mondo, a guardarlo con cura, sembra essere pieno di stracci.
Abbiamo cominciato a parlarne qui, raccogliendo sentimenti di gratitudine e di speranza.
Poi io mi sono anche ricordata di un sacco delle pezze che mia madre teneva in gran conto. Era in realtà una fodera di un cuscino piena fino a scoppiare di stracci, c’erano vestiti, ritagli di stoffa, scarti di ogni genere, tutto era pulito, però si poteva strapazzare, tirare fuori, scegliere per fare un lenzuolo per la bambola o per dare una passata al tavolo prima di mettersi a fare i compiti, erano tutti resti accuratamente ripuliti dei loro attributi di pregio, per esempio i bottoni erano stati staccati e i ricami, quando c’erano stati, messi da parte.
Ricordo, da bambina, il piacere di infilare la mano, anzi, tutto il braccio, in quel rifugio morbido, in cui il cotone mi dava una sensazione diversa dalla lana, il sacco stava in piedi da solo, parcheggiato in un punto riparato della casa perché ritenuto impresentabile, dentro c’era una specie di album di famiglia, da qualunque parte uscivano ricordi.
Gli stracci di Pistoletto, al contrario di quelli di mia madre, hanno invece un odore pungente, ci si avvicina all’opera e quella ti contamina, tu non ti sottrai all’effetto dell’usato, dell’umido, del disinfettante, sembra di stare a via Sannio nella zona dell’usato o, meglio, al mercato di Resina, per me adolescente una specie di traguardo esotico, ne sentivo continuamente parlare, quando riuscii ad andarci ebbi la soddisfazione di portarmi a casa anche una pelliccetta in ottime condizioni.
È stata l’unica pelliccia della mia vita, costava due soldi ed ebbi l’impressione che da quel momento in poi tutto sarebbe stato possibile.
Suggerisco sempre di leggere il libretto della Bohème come se fosse un romanzo, anche perché è superiore come qualità al romanzo da cui è stato tratto.
Nel quadro secondo, al Quartiere Latino alla vigilia di Natale, uno dei protagonisti, Colline, sta «(alla bottega della rappezzatrice che gli sta cucendo la falda di uno zimarrone che egli ha appena comprato)
È un poco usato, ma è serio e a buon mercato…».
Stracci come bohème.
A Resina come a Parigi.
Insomma, romanticismo e giovinezza.
Dunque, stracci come qualcosa che è a portata di mano, laddove con la Venere di Pistoletto tu, per forza di cose, trattandosi di un’opera d’arte, non puoi frugare, non puoi infilartici dentro, sei obbligato alla contemplazione.
Manco fosse la Gioconda.
Ma l’odore che aleggia tutt’intorno ti ricorda che stai in una realtà che l’artista legge come deviata dal consumo, ed eravamo solo quasi alla fine degli anni ’60. Di questa realtà lui propone il recupero, tornando più di una volta sugli stracci, dando loro una nobiltà inimmaginabile.
Per esempio, accordando a questi rifiuti il privilegio di un titolo musicale, come in Orchestra di stracci – Quartetto, che mette in scena quattro mucchi di materiali diversi tenuti sotto lastre di vetro. Quando l’opera funziona, sono anche azionati i bollitori.
Se ci state pensando, siete nel giusto.
Ci mancava solo il vapore caldo a diffondere ulteriormente l’odore degli stracci.
Altro che l’olezzo di frittelle che «imbalsama le vecchie strade» nella Bohème.
A ciascuno il suo.
A loro i profumi del Natale, suggeriti attraverso le grida dei venditori, aranci, datteri, marroni caldi, torroni, caramelle, crostata, panna montata, trote, latte di cocco, carote; a noi gli effluvi di una Venere che ha subito un rovescio di fortuna.
Lei è orrenda.
Lei che era stata bellissima.
Lei ha sofferto.
Lui se ne è andato e a lei è rimasta un’unica possibilità: quella di consumarsi nel ricordo.
Così impari a innamorarti.
A desiderarlo.
Una volta mi sono trovata da sola con lei, il museo stava per chiudere, i guardiani andavano percorrendo le sale per raccogliere i visitatori che si attardavano davanti a qualche opera.
Lei è alta più o meno quanto me e non era protetta da nessuna teca.
Insomma, lei mi stava davanti e ho dovuto confrontarmi.
Ho pensato adesso prende vita, adesso stacca le mani giunte e mi afferra al collo.
Lei ha fatto un incontro straordinario.
Il suo Cristo l’ha accolta, liberandola dalle sue ubbìe, noi diremmo che è uscito con lei, che si sono frequentati.
Maddalena, prototipo della penitente nell’arte cristiana, conosce Gesù mentre lui è a cena.
Lui è spesso a cena con della gente, lui è un uomo conviviale, che ama il vino quanto il pane.
Lei gli unge i piedi con l’olio profumato e glieli asciuga con i capelli. Volendo, l’atto più erotico del Nuovo Testamento.
E Maddalena sempre con i piedi di Cristo ha a che fare, anche quando sta, straziata, sotto la croce, anche quando si inginocchia davanti a lui in quella specie di interregno fra morte e resurrezione e lui compare davanti a lei e lei vuole toccarlo e la scena si chiama Noli me tangere, non mi toccare.
Lui glielo dice con grazia, gentilmente lui respinge il suo abbraccio.
E lei rimane ai suoi piedi
Una cagna fedele.
Una puttana che ha perso la testa per quell’uomo, che è santo e che, al momento, ha altro da fare.
Lei si ritira nel deserto, diventa eremita, è probabile che lo pianga tutte le sere.
Gli artisti di tutti i tempi hanno sempre raffigurato Maddalena come una donna di splendore fisico abbagliante, elegantemente vestita, che rimane bella anche nella penitenza.
Donatello, no. Donatello tira fuori un realismo sconcertante, in pieno Umanesimo fiorentino scolpisce in legno di pioppo bianco una creatura che grida il suo dolore.
E la ricopre di stracci.
Stracci che si mescolano ai capelli, una volta folti e lucenti, qui diventati brandelli, confusi con i cenci che lei ha addosso.
Addio agli abiti della festa, alle stoffe sontuose, a tutti gli attestati di seduzione che vengono a una donna da un mondo in ammirazione.
Lei qui è come è probabile che sia stata a quel punto: una creatura consumata, rifiutata, sola, ridotta a brandelli.
Non diciamo forse da che lui l’ha lasciata lei è diventata uno straccio?
Quando, finalmente, Auguste Rodin riceve questa commissione, sente che ce l’ha fatta. Ha subito una certa quantità di rifiuti per progetti di monumenti pubblici, si affanna per ottenere incarichi ufficiali, che gli assicurerebbero notorietà e sicurezza economica.
Dunque, la richiesta della municipalità di Calais arriva al momento giusto e il più grande scultore della modernità si cimenta con la Storia.
Il sindaco vuole commemorare un episodio celebre della storia locale: la resa della città nell’agosto del 1347, dopo un assedio durato undici mesi a opera del re di Inghilterra Edoardo III.
C’è stato un conflitto di successione, siamo all’inizio della Guerra dei Cento Anni, la città viene isolata, sono impediti i rifornimenti dal mare, la carestia devasta i corpi, la disperazione aggredisce le anime.
Si tenta una negoziazione. Il re, brutalmente, si degna di imporre che sei dei più importanti notabili borghesi della città si consegnino a lui, che ne farà ciò che vorrà.
Il resto della città sarà graziato.
E dalla città esce questo corteo di disperati, simboli dell’orgoglio urbano.
Stanno in piedi, non hanno fra loro alcun contatto fisico, a testa nuda, senza calzature, la corda al collo, le chiavi della città e del castello da consegnare.
E sono vestiti di stracci.
E ti credo, dopo il durissimo assedio e andando incontro al sacrificio.
I sei personaggi incarnano la varietà dei sentimenti umani di fronte a una morte annunciata.
L’artista, immenso, rompe con la tradizionale impostazione piramidale, rinuncia all’esaltazione della celebrazione ufficiale e li mette tutti al medesimo livello, come se stessero in un corteo in movimento.
La carica emotiva è dirompente, Rodin discute con i committenti perché non vuole il piedistallo, i suoi borghesi medioevali devono stare al nostro medesimo livello, solo così noi capiamo la miseria e l’immolazione.
Chi guarda è obbligato a girare intorno al monumento per cogliere tutti gli stati d’animo, l’artista è moderno, non vuole la rappresentazione teatrale di tradizione che obbliga a un unico punto di vista.
Il gruppo è inaugurato ufficialmente con lui presente il 3 giugno 1895 davanti all’Hôtel de Ville di Calais.
Potete vedere una copia del monumento a Londra e un’altra la trovate nei giardini del Musée Rodin a Parigi.
Mi raccomando, davanti ai borghesi, guardate i loro stracci.
A Roma c’è il detto «Il cane morde sempre lo stracciarolo» e lo stracciarolo era un mestiere miserabile, fatto di un uomo che tirava da solo il suo carretto gridando stracci: da comprare e da buttare.
Il detto significa, insomma, che piove sempre sul bagnato e che, se sei già bagnato di tuo, vedrai che ti fradici ulteriormente.
A Siena il drappellone o Palio è detto dai senesi cencio. Tale e quale a quello con cui si lava il pavimento.
Scrivo ancora con la stilografica e il negozio storico vicino al Pantheon dove vado per un acquisto, una riparazione, un saluto, ha stracci magnifici con i quali puliscono l’inchiostro dai pennini.
Lo abbiamo già detto, siamo pieni di stracci, certe volte siamo stracci noi stessi.
Però, che storia ineguagliabile, che vicenda stiamo attraversando.
Anche nel peggiore dei nostri momenti, della nostra incarnazione più miserabile, l’arte ci dice che possiamo uscirne fuori.
E, se non ce la facciamo, siamo, almeno questo, in ottima compagnia: quella di artisti e di opere insuperate, che esibiscono stracci di dignità pari a quella degli abiti regali, indumenti usati, segni di sogni di gloria forse sfumati, forse riacciuffabili, forse realizzabili in un tempo altro rispetto a quello che stiamo vivendo.
Stracci come chimera, lusinga, augurio, possibilità di una vita diversa.