I Sapori dell’arte, 10. Lunedì 28 maggio 2018: Sapore di formaggino = Sapore di Mamma
Un amico viene a una delle mie lezioni dei Sapori d’arte e quando io, scherzando, dico Sapore di mamma, lui ribatte Sapore di formaggino.
Praticamente, il titolo di quest’articolo è suo. Meglio, è della pubblicità del Formaggino Mio, ma va bene lo stesso. Lì per lì ho detto ma per carità, poi ci ho dormito sopra e il giorno dopo ho chiamato l’amico al telefono e gli ho detto d’accordo, stavolta mi occupo di questo.
Però tu sei il responsabile e te ne assumi la paternità.
Tuttavia, in un momento storico in cui la maternità è ostentata, rincorsa, sottoposta a pratiche inedite, talvolta bizzarre, altre, aberranti, partirei da alcuni chiarimenti.
1. Una donna può anche essere realizzata senza figli
2. Una donna con dei figli può anche non essere realizzata
Questa faccenda della realizzazione mi lascia perplessa, la incontro troppo di frequente e non è semplice capire che cosa significa; sono andata, quindi, a guardare la Treccani e ho letto questo: «Nel riflessivo, con uso più recente, esprimere pienamente sé stesso, la propria personalità, riuscire ad attuare le proprie capacità e aspirazioni».
Insomma, ho dedotto che realizzarsi è un’esigenza moderna, soprattutto delle donne: «Part. pass. realizzato, anche come agg., di persona, appagato, riuscito: una donna perfettamente realizzata».
Di una cosa sono certa, non farò una lezione sdilinquita, perché lo sdilinquimento non mi appartiene né per stile né per carattere (laddove esso appartiene spesso al sapore di mamma).
Detto questo, vado a occuparmi dell’argomento al quale sto lavorando e, anche stavolta, sto pure io lì a vedere che cosa combino e, soprattutto, se mi realizzo.
Sia che abbiamo figli, sia che non ne abbiamo, abbiamo però tutti una madre. Che dovrebbe essere, come si dice, materna.
E qui pure mi domando in che senso, ma la Treccani non mi soccorre, anzi, svia il discorso, parla di carezze, di idioma, alla voce Maternità la butta sul giuridico, ma non descrive i sentimenti che penseremmo di trovare in questo concetto.
Proviamoci noi, andiamo a cercare dei verbi: accudire, prendersi cura, proteggere, difendere, educare, accogliere, perdonare, nutrire, esserci.
Una madre dovrebbe probabilmente compiere gesti che rientrano nel sintetico elenco che vi ho proposto.
Ovvio che non sempre succede, ci sono madri-catastrofe, madri divoranti, madri distratte, madri assassine. Quindi, ci sono madri incapaci di essere madri.
La Medea di Eugène Delacroix ne è un buon esempio. Passionale, facilmente preda delle sue personali fiamme, quando Giasone la tradisce, non trova di meglio che uccidere i figli che ha avuto da lui.
E l’artista, romanticissimo, ce ne offre la giusta versione, splendida lei, in ottima salute i figlioletti, nella penombra della grotta Medea ha già il pugnale pronto e farà prevalere la gelosia sull’amore materno.
E non sto nemmeno a citare le madri-matrigne.
Ma prometto di fare solo un rapido passaggio presso le donne il cui comportamento grida vendetta, anche se sono tante e se l’arte ce ne offre abbondanti esempi.
Ma tanti sono anche i casi di madri tenerissime e, tenuto conto della cultura nella quale ci muoviamo, straordinariamente frequenti sono in Italia le madonne con bambino.
E come tutti sanno, due artisti nel trattare il tema sono superiori a tutti gli altri.
Giovanni Bellini, il primo grande del tardivo Rinascimento veneziano, il dominatore assoluto della scena artistica lagunare, quello che fino alla sua morte non ha ceduto un solo palmo di terreno ai più giovani (e ci andò di mezzo anche Tiziano, che stette in attesa fino a che il maestro non lasciò libero il campo), è autore di una ininterrotta serie di Madonne, una diversa dall’altra, tutte di qualità altissima, spesso malinconiche e con il Bambino offerto alla compassione del mondo, in un presentimento del sacrificio che lo attende.
Una specie di canzoniere, in cui la reiterazione del soggetto nulla toglie alla squisitezza singolare di ogni immagine, aggiungendo, anzi, nuovi sentimenti alla tavolozza emotiva dell’artista.
Sulla medesima lunghezza d’onda e a pari livello, Raffaello tratta spesso il medesimo tema, sempre con le sue qualità innate, come magiche, che eliminano dalle sue composizioni ogni tensione e ogni ansia. Le sue creature sembrano vivere in un universo superiore, privo di affanni, in cui il cielo è sempre sereno e l’anima partecipa di questa limpidezza. Uno dei suoi miracoli, unito alla capacità di essere sempre comprensibile e di raggiungere il cuore di chiunque.
(Ma visto che la lezione la faccio io, esprimo i miei gusti e, pur amando io Bellini e il Maestro di Urbino sopra tutti gli altri, vi dico che la mia Madonna prediletta è quella di Andrea Mantegna, con quel pupetto tutto stretto nelle fasce ma con le piccole mani che escono fuori, e lei sì, protettiva, accogliente, presente, vuoi vedere che, una volta di più, più di una enciclopedia, ne sa l’arte).
Se c’è madre, c’è spesso anche complesso di Edipo, così diffuso presso i nostri uomini.
L’oracolo lo aveva previsto, il bambino avrebbe ammazzato il padre e sposato la madre ed è per questo che viene allontanato e bandito.
Il Destino però è in agguato e un giorno l’ignaro Edipo uccide il padre Laio poco fuori Tebe.
Prosegue il tuo cammino e incontra la Sfinge, che gli pone l’indovinello classico: qual è l’essere dotato di voce che la mattina cammina con quattro zampe, a mezzogiorno con due e la sera con tre.
L’uomo, risponde, e giustamente, lui: gattona da bambino, sta eretto in età adulta, si aiuta con un bastone in età anziana.
La Sfinge, annientata, si getta in un baratro.
L’eroe ha il diritto di sposare la regina Giocasta, che si rivelerà essere sua madre.
Una tragedia senza scampo, risolta da Ingres in una «armonia formale eccezionale» che, prima di arrivare alla tragedia finale, ci mostra l’eroe nella sua pienezza di intelligenza e di splendore fisico, che lo rende superiore all’animale, per quanto fantastico.
Ma è tempo di smettere di scoprire le carte e di concludere questo assaggio di lezione.
E prendo, per fare questo, un paio di animali.
Il primo è il ragno che, faccio notare, in francese è di genere femminile, la araignée.
Ce lo ricorda Louise Bourgeois, che chiama Maman il suo gigantesco aracnide, che possiede, come è noto, ghiandole filatrici, dunque, che è capace di fabbricare una tela con il filo che emette.
Dunque, il ragno ha a che fare con il filo.
Così come aveva a che fare con il filo anche la madre dell’artista, che restaurava arazzi antichi e la cui presenza è indelebile nella vita della figlia.
E per concludere, vi propongo una delle tante gatte con cuccioli dell’olandese Henriette Ronner-Knip.
Che scelgo per la somiglianza con la mia prima gatta storica, che era pure lei tartarugata e che quando aveva i cuccioli si occupava di loro come se non esistesse altro sulla faccia della terra, nemmeno il cibo le interessava più di fronte alla sua ciurma esigente.
È proprio vero che, in mezzo a tante madri, le gatte sanno assolvere il loro compito con dedizione, accoglienza e presenza assolute, insomma in modo veramente materno o, meglio, come diremmo noi, con tutti i sentimenti.