SAPORE DI MASCHIO

Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi, 1784

I Sapori dell’arte, 7. Lunedì 7 maggio 2018:  Sapore di maschio

Calzini.
Ogni volta che vedo questo dipinto, bellissimo, ogni volta che me lo guardo per conto mio, che lo illustro in una lezione o in una conferenza, penso a quella povera donna con quattro maschi in casa, quanti calzini deve lavare tutti i giorni.
Una volta una persona mi ha interrotta in una situazione pubblica e mi ha fatto notare che gli uomini del quadro avevano sandali ai piedi nudi.
Che dovevo fare?
Ho fatto finta di stupirmi, non ci avevo mai fatto caso.
(È incredibile quanta poca fantasia e quanta scarsa capacità di prendere il volo, fosse pure almeno attraverso l’arte, ha la gente).
Roma, anno 1784, autunno.
Jacques-Louis David è al suo secondo viaggio in Italia, è già stato a Roma per studio tra il 1775 e il 1780.
Ora vuole tornare a immergersi nell’antico per realizzare Il Giuramento degli Orazi. Vuole iniziare la sua carriera pubblica  «par un coup d’éclat», ovvero con una clamorosa, sbalorditiva, incontenibile botta di teatro.

Arriva l’8 ottobre. «Monsieur David, avec armes et bagage» ovvero con armi e bagagli, arriva, molto atteso in città.
Si porta dietro la moglie, un’amica di famiglia, un po’ di allievi. Ha viaggiato in diligenza, Lione Torino Parma Bologna Firenze Viterbo.
Roma.
Il sogno di qualunque innamorato dell’antico che si rispetti.
Il dipinto, grande, lucido, ordinato, pieno di respiro, racconta il momento in cui gli Orazi, scelti dai romani per combattere contro i Curiazi, campioni degli albani, giurano nelle mani del padre: vincere o morire.
Le donne, distribuite sulla destra in due gruppi prostrati, possono solo provare dolore.
«Agli uomini, David dà dei corpi energici costruiti su linee dritte e un colore eclatante. Alle donne, egli riserva le linee sinuose e i colori dolci». Chiudere con il rococò, che di botto perde di senso.
Aprire con qualcosa di irresistibile: in pittura mai niente aveva avuto una forza esortativa e morale così potente.
In pittura mai niente era stato così virile.
È, questo, il manifesto di un nuovo stile: il Neoclassicismo.
Eroismo, stoicismo.
L’artista che aveva più volte fallito il Prix de Rome, ambitissimo, arrivando sull’orlo del suicidio, finalmente trionfa, esponendo il suo dipinto nel suo atelier romano e poi al Salon a Parigi.
Voltare pagina e godere di un prestigio senza precedenti, parlare una lingua nuova, dotata di una «chiarezza araldica», purificata come un archetipo.

Wolfgang Tillmans, Socks on Radiator, 1998

Calzini anche per Wolfgang Tillmans, il grande fotografo tedesco passato dalla moda all’arte con una produzione di immagini realistiche. O, almeno, tali in apparenza.
Poi, vatti a fidare, quando vieni a sapere che scatti che sembrano informali e colti al volo sono stati a lungo preparati, forse, nel sobrio groviglio sul termosifone, anche quel filo che pende in basso.

Calzini come segno di virilità, come atto di devozione espresso da qualunque donna vuoti una lavatrice e rimetta insieme le paia.
(I colori: «grigio fumo e blu scuro – rosso cardinale e verde irlandese solo in Francia – il bordeaux è uno strano colore…arrivano nei miei cassetti e li indosso alla bisogna ma non li capisco», da un messaggio-soccorso di un elegante autentico).

Roy Lichtenstein, Sock, 1962

Un solo calzino, quasi un simbolo, per il pop artista Roy Lichtenstein, che disegnava così bene da indurre Andy Warhol a posare l’armamentario e a dedicarsi alla serigrafia.
Certe volte il confronto è insostenibile: il padre, pittore, di Picasso regala al figlio tutta la sua attrezzatura quando vede le prime prove d’arte del bambinetto; nel film Il violinista del diavolo, l’orchestrale inglese regala a Paganini lo strumento che il virtuoso italiano gli aveva chiesto in prestito per provare un pezzo e scappa, inorridito davanti alla propria pochezza; ne Il soccombente di Thomas Bernhard uno dei compagni di studio al Mozarteum di Salisburgo si suicida quando si rende conto del talento inarrivabile di Gleen Gould.

Uomini fatti di orgoglio, che si presentano al mondo lasciandolo disarmato, con l’unica possibilità di una resa senza condizioni.
Per esempio, Albrecht Dürer, che realizza il più arrogante e splendido degli autoritratti, mostrandosi come Cristo e Dio.

Albrecht Dürer, Autoritratto in pelliccia, 1500

Frontale come un mosaico bizantino, le dita aperte in un atto di benedizione, gli occhi nei quali si riflettono il suo atelier ma anche il cosmo, che forse non ha creato lui, ma del quale lui certamente è al centro. (Un anno feci dieci giorni di Erasmus a Monaco di Baviera, dove il dipinto è custodito, nella locale Alte Pinakothek. Mi ero affittata una bicicletta bianca con un campanello con un Teletubbie che mi imbarazzava e che mi rovinò un po’ il soggiorno. Tutte le sere andavo fino alla pinacoteca, legavo la bicicletta a un palo e salivo a guardarmelo per una ventina di minuti, scoprendo sempre un nuovo dettaglio che mi era sfuggito il giorno prima).

Gustave Courbet, Bonjour, Monsieur Courbet, 1854

L’artista che ormai è moderno, e che quindi si dichiara apertamente superiore anche al mecenate, anche al committente, mica come succedeva ancora nel Quattrocento, quando alla corte di Borso d’Este quelli dell’Officina ferrarese non venivano mai pagati a stavano a chiedere e a pregare, considerati come erano più o meno come il sarto di corte.
Ce lo dice Courbet, che va in abito da lavoro all’aperto incontro al collezionista Alfred Bruyas, che è venuto all’appuntamento con la carrozza che vediamo in fondo, accompagnato dal maggiordomo e dal cane. Notate come solo l’artista abbia la sua ombra indipendente, tutti gli altri fanno un’ombra di gruppo, come se fossero sotto un albero che non vediamo.
«La fortuna che saluta il genio», lo scrive lui.
E inoltre: «Ho dunque debuttato nella grande vita vagabonda e indipendente del bohémien».
E noi sentiamo l’odore della giornata estiva, la secchezza dell’erba, ci sembra di essere lì, anche noi a rendere omaggio all’uomo (pare) più orgoglioso di Francia, a quello dal «talento illimitato» (Cézanne).
Un tuono che attraversa la storia dell’arte.

Jean-Baptiste Greuze, Le portrai de l’auteur, 1804

Il gusto della sfida, anche quando la speranza sembra svanita, ce lo ricorda Jean-Baptiste Greuze. Alla fine della carriera, malgrado le persecuzioni del mondo, le avversità, l’incertezza e la difficoltà dei tempi, suoi, ma anche nostri, si ritrae con un’incrollabile sicurezza di sé, con una grandezza pari a quella di Rembrandt per la spietatezza dell’analisi e la lucidità d’artista.

Henry Wallis, Morte di Chatterton, 1855

Ma anche maschi fragili, giovani, che suscitano in me un sentimento sconfinato di tenerezza.
Fra tutti, il mio prediletto: Thomas Chatterton.
Nasce a Bristol nel 1752, già orfano. Diventa falsario letterario a 14 anni inventandosi un poeta, Thomas Rowley, che sarebbe vissuto nel XV secolo; nel 1769 inganna per qualche tempo Horace Walpole con un falso trattato sulla pittura a firma del suo alter ego fittizio. Il medesimo anno alcune delle sue opere sono pubblicate. Nel 1770, a 17 anni, si stabilisce a Londra con immense speranze di riuscita e grande esaltazione. Quattro mesi dopo è trovato suicida per le sconfitte e la terribile povertà. Mai Londra, che pure è una città dura, era stata così feroce: il sottotetto con la finestrella aperta, il vaso con il fiore sdutto, i capelli rossi, una sola scarpa indossata (l’altra è sul pavimento), a terra un bauletto aperto con i fogli strappati e un giornale di cui non si legge il titolo.
In mano il giovanissimo poeta ha la fiala dell’arsenico.
Altri fogli sono sul tavolino rotondo a destra, sulla sedia c’è la sua giacca. I pantaloni sono del medesimo blu del panciotto di Werther. Un altro suicida, lui, per amore, ma forse non solo. Difficile sottrarsi al bisogno di consolazione che suscitano queste presenze.

Annibale Carracci, La bottega del macellaio, 1585

Ci sono degli ambiti che considero squisitamente maschili.
E non sto parlando solo del parcheggio, che a me riesce in maniera sommaria e del quale conosco virtuosi fuori concorso.
Penso al taglio.
Il macellaio, come ci mostra Annibale Carracci in un dipinto probabilmente simbolico (nella sua Accademia dei Desiderosi, detta anche degli Incamminati, tutti e due nomi bellissimi, si disegnava dal vivo, ovvero si studiava dal vivo la carne), in azione nella bottega in cui l’unica donna è una cliente, laddove di solito, fateci caso, al più è la cassiera.
Poi il chirurgo. Potendo scegliere, non mi farei mai operare da una donna.
Poi il parrucchiere. Mi faccio tagliare i capelli solo da un uomo.
Poi l’artista.

Lucio Fontana fotografato nel 1964 da Ugo Mulas

Infatti, ci ha pensato Lucio Fontana a tagliare una tela (chissà quanto deve essergli piaciuto il rumore che usciva dal suo gesto), quando uno  intende basta con la pittura, poi te lo dice, esplicito, in questo modo.

 

 

Trovo che il calcio sia uno sport virile e diffido degli uomini che non lo apprezzano.

Alexander Deineka, Il portiere, 1934

Trovo virile la scrittura di Hemingway, trovo la scrittura, come il cinema, né maschio né femmina, mi piace a volte anche quella barocca che prende il volo nei dettagli, però l’asciuttezza sua, la sua capacità di far nascere dal niente (questo significa scrivere) scenari nei quali provo dolore a non esserci,  tutto quel suo modo di sottrarre aggiungendo senso mi sembra incomparabile.

Ernest Hemingway

Trovo interessante che l’articolo indeterminativo maschile non abbia bisogno di apostrofo, evidentemente, come spesso capita agli uomini, non si è perso niente e basta a se stesso.

Ma è tempo di invitarvi a venire a sentire la mia lezione e a riflettere per conto vostro sui maschi: l’importanza della loro presenza al mondo, i loro pregi, i difetti, come sarebbe la vita senza di loro, se un paradiso o un pollaio, i conti che sono in sospeso e quelli che sono dimenticati e fatti.

Vi invito a constatare che il genere umano, almeno ai nostri giorni, è l’unico nel quale la femmina è più appariscente del maschio.

Pavone maschio e femmina

Maschio Angioino, Napoli

E vi propongo in chiusura uno dei miei maschi preferiti, che mi ispira sempre un sentimento di forza e di bellezza.
Il Maschio Angioino, a Napoli, è stato riportato dai restauri alle sue forme quattrocentesche e si presenta oggi con la sua mole compatta, sottolineata dalle torri merlate cilindriche, così poderose.
Ma il suo momento più bello sta nell’Arco di Trionfo, che fa da ingresso e che ricorda l’entrata a Napoli di Alfonso I d’Aragona nel 1443.
Realizzato in marmo con il concorso di più artisti, è composto da due arcate sovrapposte sormontate da attici ornatissimi ed è proprio il pezzo che in un castello così arcigno non ci aspetteremmo di trovare.
Eppure ci sta così bene, credo per il contrasto dei materiale e dei colori, per il guizzo inatteso, per la grazia che esprime di fronte alla potenza dell’architettura.
Le sorprese che riservano i maschi.
L’erede maschio.
Carattere maschio; maschie decisioni; maschio stile; maschia eloquenza.
L’aggettivo maschile indica energia, vigoria, l’atteggiamento maschile è duro, energico, forte, macho, vigoroso, virile.
Insomma, per dirlo in una parola: un maschio è pieno di sapori.

Jonas Kaufmann e Thomas Hamspon, grande tenore e grande baritono, in Dio, che nell’alma infondere, il più bell’inno all’amicizia virile mai concepito:
« Giuriamo insiem di vivere e di morire insieme». Giuseppe Verdi, compositore virile per antonomasia, alle prese con il suo Don Carlo.

2 Comments

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  1. Mi inchino ammirata dinanzi alla tua immensa conoscenza!

    • Rosella Gallo

      6 maggio 2018 — 8:51

      Ma dai, questi maschi qui li incontri per mestiere. Ma noi dobbiamo organizzare presto una delle nostre uscite e parlare di tutto, anche di uomini (grazie)

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