Sono padrone d’un grande arsenale di spiegazioni per ogni sentimento
Ingmar Bergman, Lanterna magica, 1987
C’è una scena in un film che mi pare sia La famiglia di Ettore Scola che ricordo terribile.
Un adulto, un nonno o uno zio, sta in una stanza e si mette a chiamare: «Paolino! Paolino!».
Paolino, un bambinetto, accorre, sgroppa, si precipita, si attacca alle gambe dell’adulto.
E l’adulto continua a chiamare: «Paolino! Paolino!».
E Paolino, sempre attaccato alle gambe, strilla: «Ma sono qui, perché non mi vedi, sono qui».
Il gioco feroce va avanti ancora un po’, con Paolino che, a un certo punto, ha una crisi terribile, di grida e di pianto.
Se volete sapere quanto male fa l’indifferenza, eccovi serviti.
Oggi avrei voluto mangiare un panino confezionato dal mio fornaio a via della Croce. Ma il pane era finito. Dunque sono passata alla mia edicola, che ha appena riaperto dopo una ventina di giorni di ferie lasciandomi senza le mie riviste estere, mi sono, quasi, rimessa in pari e ho deciso di farmi fare il panino alla salmoneria a via Ripetta.
Un Barcelona, il più semplice di tutti.
Ho incontrato anche qualche mio studente e ho detto arrivo.
Però sono invece andata al bar dell’Accademia, dove ho incontrato un collega che prediligo e pure lui si stava facendo un panino e mi ha detto dai, su, fammi compagnia e allora ho chiesto una bottiglietta d’acqua minerale.
Piatta e a temperatura ambiente.
Esattamente il motivo per cui ero entrata al bar.
Io sarei dovuta andare in aula ma ci siamo, invece, seduti a un tavolo e ci siamo messi a parlare, forsennatamente, come facciamo sempre io e lui, e non so perché è uscito fuori il discorso dell’indifferenza e io ho detto quanto fa male e lui ha, entusiasticamente, aderito alla mia lettura di quello che è a tutti gli effetti un sentimento: potente, feroce, sempre vincente.
Nel frattempo avevo mandato un WhatsApp nella nostra vivace chat ai miei studenti dicendo «Sto al bar» e quando sono finalmente salita loro si erano organizzati e stavano scendendo tutti per venire al bar a fare lezione, laddove io avevo detto che stavo al bar per darmi un tono da vacanze romane.
Insomma, è finita che in corridoio, mentre il collega mi accompagnava nella mia aula, abbiamo incontrato tutti i ragazzi e ci siamo fatti un sacco di risate e io ho detto al collega adesso facciamo dietro front, andiamo in aula, facciamo lezione, però dopo vengo a salutarti.
E così è stato.
Per cui abbiamo finito il pomeriggio, anche in modo alcolico, al bar all’angolo, parlando di indifferenza e di sentimenti.
(Il bar dell’Accademia, malauguratamente, non serve alcolici).
Ho conosciuto alcune madri indifferenti.
Come questa cosa possa accadere, non so spiegarmelo, anche se ci sono, per esempio, madri che uccidono i figli, sto dicendo non solo nella cronaca ma anche nella mitologia, voi prendete Medea, un cattivo esempio per tutte.
La madre indifferente è altro dall’assassina per vendetta.
Lei si conclude in se stessa.
Un uomo giovane ma adulto mi raccontava dell’indifferenza con cui la madre lo toccava quando lui era piccolo.
Un ricordo molto preciso e dolente, legato a un’età in cui non ci sono ricordi.
Io conoscevo questa madre, trovavo che fosse una persona di nessun pregio e di nessuna importanza, ma tu vallo a dire a un figlio.
Lo dice, invece, e molto bene, Ingmar Bergman, nella sua autobiografia Lanterna magica.
Lui nasce nel 1918, quindi possiamo fare i conti e prendere le distanze.
Ma io le distanze non voglio prenderle perché a me l’indifferenza è estranea, io sono una donna affettivamente calda e sono pure una passionale, quindi non faccio alcuna fatica a rivelare i miei sentimenti, innamoramento, amicizia, stima, anzi, certe volte mi impongo di contenermi per questioni di stile e di riservatezza.
Comunque, io, da Ingmar Bergman, non ho alcuna intenzione di prendere le distanze.
Mi sono rivista tutti i suoi film in versione originale, quindi, svedese, trovandoli ancora più belli e sono andata a Fårö, piccolissima isola del Mar Baltico, e ci sono andata quando ancora lui ci abitava.
E non è che volessi incontrarlo, io volevo solo vedere la sua luce e respirare la sua aria.
E luce e aria furono bellissime, come fu bellissimo tutto.
Dunque Bergman nasce nel 1918, è un bambino malaticcio, la madre scrive sul suo diario: «Sembra un piccolo scheletro con un nasone rosso fuoco. Rifiuta con ostinazione di aprire gli occhi».
Gli occhi li aprirà, eccome, diventando uno dei massimi registi del secolo scorso.
E poi, i diari della madre. Scritti con una grafia minuscola, con brani in codice, ritrovati nella cassetta di sicurezza dopo la morte di lei, che aveva fatto apposta a non bruciarli.
Scena del padre, un pastore luterano, con la lente di ingrandimento in mano, che cerca di decifrarli.
Lei ha avuto un altro amore, lei era infelice, lui per cinquant’anni ha vissuto accanto a una donna che non conosceva e che avrebbe voluto vivere con un altro.
Ma, dicevamo, l’indifferenza.
Il bambino Ingmar è innamorato della madre: «Il mio cuore di quattro anni si consumava d’un amore simile a quello di un cane».
Lui manifesta devozione.
Lei si irrita.
Lui capisce per tempo che, per avere l’attenzione di lei, deve ammalarsi.
Lei, nei confronti dei malati, prova compassione.
Ma lei ha fatto studi da infermiera, quindi smaschera le simulazioni.
Il bambino Ingmar trova un’altra arma: «avevo capito che la mamma non sopportava l’indifferenza e la noncuranza: queste erano le sue armi. Imparai dunque a tenere a freno la mia passione e iniziai uno strano gioco i cui ingredienti principali erano l’arroganza e una fredda cortesia».
Arroganza e fredda cortesia.
Sono qui che mi interrogo su quante volte le ho incontrate in vita mia.
Alberto Moravia ha esordito nel 1929 con un romanzo intitolato Gli indifferenti.
L’ho letto da ragazza e ci sono ritornata sopra da adulta.
Tutta quella gente, Carla, Michele, Mariagrazia, Leo, mi faceva stare male, pensavo che non avrei mai voluto incontrarli.
Laddove c’erano protagonisti di altri romanzi che sognavo di incontrare.
Loro mescolavano indifferenza e noia, nel mio immaginario, i nemici più accaniti della voglia di vivere.
E ora il nostro dipinto di oggi.
Amo Watteau profondamente, per il mistero, le ellissi, per la sua atmosfera di costante malinconia.
Qui lui dipinge un’allegoria della danza. Il dipinto è anche pendant di un’allegoria della musica.
Poi, però, come sempre con lui, l’opera è molto altro.
Certamente, un passo aggraziato, ma anche le braccia aperte.
Ecco, io sull’indifferenza la penso così: le apro le braccia, l’accolgo.
Come diceva Cesare Pavese il 24 ottobre 1940: «La strategia amorosa si sa adoperare soltanto quando non si è innamorati».
E, allora, poche chiacchiere.
E chi se ne importa.
Pure se si sta male.
Come fai, su, a fingere indifferenza.
E non vi ho nemmeno citato la Treccani, che alla voce indifferenza in economia, parla di «curve che rappresentano graficamente le scelte possibili fra azioni economiche capaci di recare al soggetto soddisfazione equivalente, e quindi perfettamente sostituibili l’una all’altra».
Al peggio non c’è mai fine, quindi, non solo oggetto di indifferenza, ma anche sostituibilità di una persona con un’altra.
Propongo di lasciar perdere.
Anche perché, per l’indifferenza, l’unico rimedio è il tempo.
Ovvero il trascorrere del sentimento.
E chissà se questo stato d’animo è auspicabile, oppure se rende, anche noi, orrendamente indifferenti, proprio come è orrendo l’indifferente.