René Magritte, Il tradimento delle immagini, 1929

La circolare faceva capolinea a piazza del Risorgimento e impiegava quarantacinque minuti ad arrivare all’università.
Bisognava partire per tempo, la lezione era alle 15:00, e tutto stava, in aula, nel sedersi in una delle tre file finali, che erano dotate di tavoli con una luce.
Se arrivavi tardi, eri costretto ad arrangiarti con le sedie che stavano più avanti, al buio (le lezioni si svolgevano e si svolgono al buio), con una torcia tascabile.
Non sono mai arrivata tardi, la lezione di Storia dell’arte moderna era diventata il centro della mia esistenza.
In aula ci stavamo tutti, matricole, laureandi, perfezionandi, a stare lì dentro provavo una sensazione di comunità che nella vita solo la scuola in senso alto mi ha saputo dare.
Quando arrivava il professore, era sempre seguito da uno stuolo di assistenti, uno dei quali portava il caricatore con le diapositive, come se fosse stata una pisside.
C’era un solo proiettore, piccoletto, non era nemmeno un Carousel.
Appena entrava il professore, l’aula piombava in un silenzio che trasudava sacralità e rispetto.
Iniziava la lezione.
Quante diapositive mandava il  Maestro?
Poche, ho ancora gli appunti, sui quali ancora studio.
La lezione durava meno di un’ora e lui poteva stare venti minuti su un’immagine.
Senza esaurirla.

Una sera un amico mi invita a una conferenza di viaggio.
Mi rendo conto in pochi secondi che le immagini scorrono troppo veloci, poi verrò a sapere che in un’ora ne vanno sessanta.
Un minuto a immagine è poca cosa.
Forse va bene per soggetti senza importanza, se tu mandi un dipinto di un autore complesso, in un minuto non riesci a dire niente.
Da tre giorni sto a preparare immagini per le mie lezioni.
Ma non va bene, sono troppe.
Ed è troppo il tempo che impiego a prepararle (cerca, scarica, converti da jpg a png, metti la chiavetta nel proiettore, prova se funziona e, se non funziona, ricomincia daccapo), rispetto al tempo dello studio.
Per preparare una lezione impiego in media otto ore.
Non posso passarne quattro a preparare immagini.
Credo, con questi ritmi di lavoro, di non avere tre giorni di tempo per preparare una lezione.
Dunque, devo fare qualcosa per le immagini, immagino, ridurle.

Quando Beckham giocava ancora, ma anche quando non giocava più, mi capitava di dire al mio parrucchiere hai visto che capelli aveva ieri e lui, il parrucchiere, mi rispondeva sempre portami una foto, così capisco.

Appunto, il parrucchiere.
Mi sto chiedendo se possiamo fare a meno di così tante immagini, se fosse possibile tornare all’uso della parola.

Olivier Saillard, Le Bouquin de la Mode, 2019

Il mio storico della moda prediletto, Olivier Saillard, che fra l’altro nasce come storico dell’arte, ha pubblicato un volume di scritti collettivi di 1.278 pagine su papier bible, cioè su carta sottile, quella che vediamo nei messali, senza nemmeno un’immagine.
Ce l’ho qui, sulla mia scrivania, e ci sto lavorando.
Va giù come una bibita fresca d’estate, non ho alcuna nostalgia delle illustrazioni.

Forse siamo intossicati, così come siamo intossicati dal colore, al punto che alcuni dei miei studenti non riescono a vedere un film in bianco e nero.
A dirla tutta, quelli più sguarniti intellettualmente.

Voglio fare dei tentativi. Fare lezioni con meno immagini proiettate e con più parole.
Io con le immagini ci lavoro, non ho alcuna voglia di mettermi a curare un corso di scrittura creativa, pure se sarebbe più comodo, foglio e matita e stai a posto.
Tornare alle origini, tanto, si sa, in aula si utilizza un simulacro, un cenotafio, l’opera d’arte sta altrove e bisogna incontrarla di persona.
Quanto ho studiato, quanto, su immagini in bianco e nero, spesso grandi come francobolli, sempre riservando tutta la meraviglia e tutto lo stupore all’incontro con l’opera di persona e dal vivo.
Ormai sono certa che l’assenza così diffusa dell’esperienza con l’opera d’arte derivi proprio dal succedaneo, dalle immagini che intossicano.

Poi, arriviamo a Magritte. I cui titoli, tanto, sono sempre avulsi dall’opera, aveva un incaricato che li produceva e, in ogni caso, questa è vero che non è una pipa, voi provate a fumarla.
E poi pipe ha anche un altro significato: indica un rapporto orale.
Dunque, è vero che questa non è une pipe.
Appunto, lo capirebbe chiunque.
E tu, vatti a fidare delle immagini.
Il rimedio alle immagini sono, infatti, le parole.

E, in questo caso, anche i fatti, che molto aiuterebbero a capire.

Antoine Watteau, Le remède, da cui tutto è cominciato