Arte e cinema (page 6 of 9)

Insieme perché hanno entrambi a che fare con l’immagine. L’arte, semplicemente, il mio lavoro, la professione amatissima, ciò cui mi dedico in modo completo e totale. Vi racconto la mia arte, così come la vivo, la studio, la diffondo. Il cinema, ve lo dico subito, ciò che farò nella mia prossima vita, non appena mi sarà data la possibilità di scegliere: critico o sceneggiatore, poco importa, l’importante sarà stare in una sala buia, accomodata in una accogliente poltrona, con fuori il mondo con tutti i suoi fastidi. Oppure davanti a uno schermo o a una pagina bianca, inventando situazioni e vite alternative, per me e per gli altri.

E GUANTO DI VELLUTO

Max Klinger, Un guanto: Amore, 1881

Lo dico sempre, che l’arte ci tende uno specchio nel quale guardarci.
(Forse per questo certe volte ci disturba tanto).
Ma talvolta la contemplazione di noi è una consolazione, dunque: eccoci.
Moderni, feticisti, più capaci di concentrarci su un oggetto che su una persona, vittime dei nostri sogni e dei nostri incubi.
Quando Max Klinger, tedesco di Lipsia, si trova a raccogliere un guanto perduto da una sconosciuta su una pista di pattinaggio di Berlino, ha ventun anni.
L’ossessione comincia e poco dopo, siamo nel 1878, espone un’affascinante serie di disegni nei quali racconta il fatto.
Ma procediamo con ordine e vediamo che cosa sono, nella sostanza, i guanti.

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TRE DONNE, TRE FANTI, SEI CUORI

Touchée.
Tempo fa faccio una visita guidata alla mostra di Dürer alle Scuderie del Quirinale per un gruppo di giuristi a Roma per un convegno. A esso volevano aggiungere qualcosa di culturale.
Alla fine della visita un giovane avvocato mi prende in disparte e mi fa: «Ma dottoressa, lei questo Dürer lo ama di amore carnale».
Se fossi timida, sarei sprofondata all’istante.
Non sono timida, dunque risposi in qualche modo, non mi ricordo come, fatto sta che mi resi conto che la mia tresca era venuta alla luce e che tutti  ormai sapevano.
Da allora, excusatio non petita, premetto il raccontino ogni volta che affronto il discorso dell’immenso artista tedesco.
Pura legittima difesa.
Come si dice dalle mie parti, chi mena per primo, mena due volte.
E chiudiamo questa parte del discorso.
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L’ISOLA CHE NON C’È

Arnold Böcklin, L’Isola dei morti, 1880

Cominciamo dal nome, che è spettacolare, quindi ben trovato, dunque, che funziona a meraviglia.
Poi diciamo subito che le versioni del dipinto L’Isola dei morti di Arnold Böcklin, il più grande artista dei paesi di lingua tedesca dell’Ottocento, sono cinque. La terza è appartenuta a Hitler. La quarta è andata distrutta durante l’ultima guerra.
Si tratta di varianti, dunque di opere che presentano delle differenze, anche di formato e di tecnica.
E fin qui ci siamo.
E passerei ora all’isola, che è già come concetto un luogo esclusivo, appunto, isolato.
C’è una tradizione secondo la quale i morti riposano in luoghi differenti: la massa, nel regno sotterraneo di Ade.
Gli eletti, quelli che gli dei prediligono, dormono invece il loro sonno su un’isola.
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SE SI SCATENA IL PANICO

Pan e la capra, I secolo, part.

Ci invidiano, gli dei.
Lo sa, per esempio, Achille, che, se non fosse stato per la sventatezza della madre Teti, che lo teneva per un tallone quando lo immerse nello Stige per dargli l’immortalità, sarebbe stato invulnerabile.
(Peccato quel dettaglio).
E Achille sa che gli dei ci invidiano per prima cosa perché siamo mortali, quindi sottoposti a una fine di cui ignoriamo, fra l’altro, il momento.
(Come diceva uno in un film, eh, siamo messi peggio dei replicanti di Blade Runner).
E, come sappiamo, è proprio la morte, paradossalmente ma fino a un certo punto, a dare un senso alla vita.
Gli dei ci invidiano anche per i nostri affanni, per quel nostro sbatterci qui e là continuamente, è probabile che gli dei ci invidino anche per i sentimenti che proviamo, con tutto che pure loro, al riguardo, mica scherzano.
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THE MOST HAPPY

Enrico VIII e Anna Bolena

Ieri è stata giustiziata Anna Bolena.
Io lo sapevo, che sarebbe finita così, conosco un po’ la storia inglese, però ho sperato fino alla fine, e ho sperato fortemente, che ci fosse una deviazione, che la sceneggiatura contemplasse un’altra possibilità, che so, non dico che lei rimanesse sul trono d’Inghilterra (Enrico VIII ha avuto sei mogli e lei è solo la seconda, quindi, ce n’è ancora, di strada), ma che almeno le fosse risparmiata quella fine così cruenta.
Mandiamola in convento, no?
Ci sperava pure lei.
E, invece, niente.
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UOMINI SENZA DONNE

Stuart Davis, Men Without Women, 1932

Vediamo se ci siamo: una spider decappottabile; una pompa di benzina; un pacchetto di sigarette; sigari; barca a vela; tabacco e un sacchetto di tabacco; carte da gioco; fiammiferi; insegna di barbiere; campana di una nave.
Questo è un uomo.
Almeno secondo la visione che di un uomo ha Stuart Davis, insieme a Hopper, l’altro grandissimo artista americano degli anni ’30.
Tutto il contrario di Hopper, visto che Davis è estroverso, loquace, spiritoso, ottimista.
Sensibile al Cubismo, anticipatore della Pop Art per via della sua passione per gli oggetti, uno cui dovrebbero guardare tutti coloro che si occupano di pubblicità, visto che il suo catalogo è pieno di dipinti nei quali compaiono prodotti che per noi diventano subito desiderabili.
Ma oggi Davis ci interessa per il murale che gli venne commissionato nel 1932 per il lounge riservato ai fumatori (maschi) nel Radio City Music Hall, quel tempio dello spettacolo del Rockefeller Center nel quale, se ricordate, finisce anche il giovane Holden durante le sue peregrinazioni newyorkesi, scocciandosi a più riprese, per il varietà e per il film di quell’Alec vattelappesca che aveva perso la memoria.
Eccetera.
Ma il giovane Holden arriva una ventina di anni dopo.

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A PERDITA D’OCCHIO: 13 DICEMBRE SANTA LUCIA

Francesco Del Cossa, Santa Lucia, 1472-73

Basta avere un seppur lieve difetto di vista (io, per esempio, sono miope), o aver sofferto, o visto qualcuno soffrire, di una patologia oculistica, ed ecco che si diventa devoti a Santa Lucia.
Pure se non si è credenti, pure se  si crede in altro, eppure il fascino dei santi, e di lei in particolare, è irresistibile.
Cominciamo con il dire che Lucia è una figura storica, vissuta e morta a Siracusa sotto Diocleziano.
Quello che sappiamo di lei è che, riconoscente per la guarigione della madre, miracolosamente avvenuta al santuario di Sant’Agata, decise di donare tutti i suoi beni ai poveri, attirandosi così l’ira del suo promesso sposo, che, evidentemente, era dotato di un forte senso, chiamiamolo, pratico.
Lui, allora, andò dal giudice Pascasio e la denunciò come cristiana. I tempi erano quelli che erano, e lei fu trascinata davanti a lui. Si rifiutò, però, di abiurare.
Fu dunque condannata a essere trascinata in un bordello.
(Le donne, si sa come punirle).

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BUONA DOMENICA

Paul Signac, Un dimanche, 1888-1890

Voi la domenica che fate?
Io da un pezzo, anzi, da sempre, la domenica faccio la medesima cosa: studio.
Studiavo già da ragazzetta, alle scuole medie, quando però la domenica mattina aveva un  momento elettrizzante, quello che seguiva alla parrocchia e che sfociava clandestinamente nell’autoscontro allestito non lontano dalla chiesa, a Trionfale.
(Sospetto da tempo che una stagione di miei terribili mal di schiena, intorno ai trent’anni, abbia tutta avuto origine proprio lì. Quelle macchinette erano indemoniate e le più ricercate erano le botte frontali. Le conseguenze non avrebbero tardato a manifestarsi).
Al ginnasio, proprio non se ne parlava.
L’uscita del sabato pomeriggio, per tre ore di cinema o, sempre più clandestinamente, in discoteca, con la necessità subito dopo di togliersi di dosso l’odore di fumo, dalla faccia, il trucco e dagli abiti la provocazione, l’uscita del sabato pomeriggio, dicevo, si scontava con un’adesione totale, che durava dalle 9 alle 21 con pausa pranzo, alla scrivania, la domenica.
Insomma, una vita in décalage.
Che in francese è quella cosa che mi fa stare tanto male che è il fuso orario.
Ma che è anche la possibilità di vivere senza fare del tutto quello che fanno gli altri.
Proviamo a ragionarci.

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LA MANO ALL’ACCADEMIA

Antonio Canova, Psiche risvegliata da Eros, 1793, part.

La distanza è di 11 metri.
Quella del calcio di rigore, che dà la possibilità all’uno e all’altro, al portiere e al rigorista, di guardarsi negli occhi.
Solo, qui le posizioni sono invertite, per cui voi che potete muovervi diventate il portiere. La statua, o, meglio, la scultura, statica per definizione (insomma, si fa per dire), lei diventa il tiratore.
E potete provare un unico sentimento: quello della paura, tanto bene descritto in un romanzo (Peter Handke) e in un film  (Wim Wenders) memorabili.
La paura del portiere prima del calcio di rigore.
Con sculture come queste, mettetevi l’animo in pace, non c’è scampo. Voi entrate nel loro radar e quelle vi infilzano.
Ma procediamo con ordine.

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QUESTO SENTIMENTO DELL’ESTATE, 9: LA GIORNATA DEL SEDUTTORE

La vita è priva di senso, lo dicono i filosofi.
E se lo dicono i filosofi, sarà senz’altro vero.
Personalmente, il senso alla vita cerco di darglielo, perché altrimenti perdo l’orientamento. E perdo pure la pazienza.
Il nodo è come. Per esempio facendo attenzione ai segni, riorganizzandoli, cercando di capire se per caso c’è un disegno leggibile che essi formano.
E domenica i segni c’erano tutti e, si capiva benissimo, avevano pure fatto uno sforzo per mettersi d’accordo fra loro.
Bastava ascoltare quello che stavano dicendo.
Adesso vi racconto.
Di solito mi regalo un viaggio estivo il giorno del mio compleanno, il 23 marzo. Ci sono cinque mesi circa prima della partenza, quindi ho poi tutto il tempo di mettere a punto un programma ben fatto.
Quest’anno mi sono anticipata, evidentemente avevo bisogno di distrarmi, e ho messo tutto a posto già il 17 febbraio.

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