Arte e cinema (page 3 of 9)

Insieme perché hanno entrambi a che fare con l’immagine. L’arte, semplicemente, il mio lavoro, la professione amatissima, ciò cui mi dedico in modo completo e totale. Vi racconto la mia arte, così come la vivo, la studio, la diffondo. Il cinema, ve lo dico subito, ciò che farò nella mia prossima vita, non appena mi sarà data la possibilità di scegliere: critico o sceneggiatore, poco importa, l’importante sarà stare in una sala buia, accomodata in una accogliente poltrona, con fuori il mondo con tutti i suoi fastidi. Oppure davanti a uno schermo o a una pagina bianca, inventando situazioni e vite alternative, per me e per gli altri.

L’INFILTRAZIONE DEI SENTIMENTI

La casa-atelier di Malotru, il protagonista

Guardate che vi hanno ingannato.
Vi hanno raccontato cose che non esistevano.
Vi hanno dato spiegazioni insensate.
Vi hanno consolato inutilmente.
Un’intuizione, del resto, io ce l’avevo avuta. Tempo fa, davanti a uno che non capivo che mestiere facesse.
Ora, se uno si presenta e ti dice faccio l’avvocato e sono penalista, tu capisci che quello lavora con gente che sta al gabbio e che ha cose di sapore forte da raccontarti.
Capisci che quello porta le casse al mercato all’alba; che quell’altro gira i barattoli di pomodoro dalla parte dell’etichetta al supermercato; che quello vende telefoni; che quell’altro insegna, cioè spiega le cose che sa, e certe volte pure quelle che non sa, a ragazzini di età diverse.
Eccetera.
Ma quello che si presenta come marketer, nella sostanza, che fa.
E quello che organizza eventi.
E quell’altro che sta nella comunicazione.
E lo psicologo, al quale la gente dà dei soldi per parlare e quello di solito non è che capisca del tutto quello che gli stai dicendo.

Tutte menzogne.
Non è vero niente.

Ma non è come pensate voi.
O come vi hanno fatto credere che fosse.
Mica ci voleva tanto a capirlo.

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JOURNAL, 9: IO & LUI

A 007 dalla Russia con amore, 1963

È scuro.
Scuro come una sinfonia di note scure: cioccolato nero 75%.
Caffè, forte.
Caramello, vino Bordeaux, anche un Borgogna va bene.
Insomma, qualcosa che passa per la bocca.
Ha una bocca bellissima, probabilmente sta lì tutto il suo fascino, deve baciare benissimo, anche se tutti i baci sono finti, clamorosamente.
È scuro.
È un concentrato di tutti gli uomini scuri che ho conosciuto in vita mia, a cominciare da mio padre, che era fisicamente notevole.
Non ho mai perdonato a mia madre di aver perso la testa per lui.
Anche se forse, se lo avessi incontrato in situazioni diverse, la testa l’avrei persa anch’io.
È elegante. Certo metà dell’eleganza la fa l’altezza, ancora due centimetri e arriva al metro e novanta.
Certo, che le giacche gli calzano a pennello e che i pantaloni cadono con il giusto piombo.
È atletico, ironico, disinvolto, sa sempre che vino ordinare al ristorante, è un intenditore di brandy e di armi, dopo una scazzottata che si sarebbe potuta rivelare letale, si spolvera la giacca e si raddrizza la cravatta.
A giudicare da come le donne gli si appiccicano addosso, in situazioni intime deve essere un’iradiddio che non si dimentica.

È 007.

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GIOVEDÌ: SORBETTI

Siate regolari e ordinati nella vostra vita, in modo da essere violenti e originali nel vostro lavoro

Gustave Flaubert

Indicativo presente. Mi sfiniscono, quelli che a tavola devono cambiare continuamente.
Una volta sono incappata in una vecchia pubblicità delle minestre in busta, con lui che diceva a lei «È così che mi piace mangiare, cambiare ogni sera menu».
È questo che ti meriti di mangiare, la minestra Arlecchino dal delicato sapore tradizionale nella quale non si capisce bene che cosa ci trovi.
La medesima punizione dei vegetariani che non vogliono cucinare le verdure e si mettono nel piatto la zuppa cosiddetta fresca, cosiddetta buona come fatta in casa, cosiddetta preparata secondo tradizione, che è poi immangiabile, pure se la addizioni con l’olio buono e se copri il sapore di mensa scolastica con una macinata di pepe.
Mi sfinisce Irina/Irene.
Dopo la cerimonia del caffè quando arriva, le prendo qualcosa da mangiare a metà mattina, però si annoia, per cui mi devo ricordare che la volta passata le ho dato la merendina ripiena di marmellata di ciliegia e che stavolta preferisce quella con il cioccolato a pezzi.
Poi i dolcetti incartati individualmente.
E le patatine in busta, quelle piccole da 25 g.
E oggi pure il bocconcino di formaggio fun con la pelle sopra che cambia di colore a seconda del sapore, sapore, poi, tu valli a distinguere, il cheddar dall’emmental e dall’edam.
Ce n’è anche uno alla mozzarella.

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DI QUELLO DELL’OPERA E DI ALTRI FANTASMI

Sing once again with me our strange duet
My power over you grows stronger yet

1/4. A dirla tutta, il primo sentimento che suscita in me non è esattamente il ribrezzo.
Trentacinque anni; ancora due centimetri e arriva a un metro e novanta; voce bellissima; indossa mantello, guanti e regala fiori, sempre e solo una rosa rossa; infinitamente atletico, salta giù da tombe innevate e da macchine teatrali che sembrano uscite dalla mente pazza di Piranesi; tira di spada che è una meraviglia; abita in sotterranei infilandoti nei quali non è che non capisci che stai andando incontro all’avventura; esige che gli venga lasciato per intero un palco all’Opera, sempre il medesimo: il numero 5.
Insomma, a farla breve, se il Fantasma vuole rapirmi e portarmi laggiù dove vive lui e darmi lezioni di musica a lume di candela, io ci sto.
E il fatto che abbia mezza faccia deturpata, con la maschera manco si nota tanto.

Ma procediamo con ordine.

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CORONA BLUES, 23: UNA STANZA TUTTA PER SÉ

Vincent, La camera da letto a Arles, 1888

Intorno ai miei dodici anni, avevo sofferto di non possedere in casa un angolo per me. Leggendo su Mon Journal la storia di una collegiale inglese, avevo contemplato con nostalgia l’immagine a colori che rappresentava la sua stanza:  una scrivania, un divano, degli scaffali coperti di libri; fra quei muri dai colori vivi, lei lavorava, leggeva, beveva del tè, senza testimoni. Come l’invidiavo!

Simone de Beauvoir, L’età forte

Vincent. Quella sì, che fu una mostra.
Nell’aria fissa e costantemente gelida di Amsterdam, nel museo intitolato all’artista, c’era praticamente tutta la sua produzione.
Da perderci la testa.
Nel centenario della morte, la terra natale festeggiava quel suo figlio santo e maledetto a un tempo, morto suicida in Francia, avendo dipinto solo una decina di anni, gli ultimi della sua vita e avendo lasciato una traccia luminosa come la coda di una cometa.
Difficile, non amarlo.
Alcolizzato, sifilitico, autolesionista, inquieto, certamente non matto, van Gogh voleva essere chiamato solo col nome di battesimo, come era stato con i grandi, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Rembrandt.
Infatti, lui così si firma: Vincent.

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CORONA BLUES, 20: EFFETTO CONFINAMENTO

La Capanna dell’Eremita, foto Kate Berry

Questo è il tuo paesaggio, Bergman. Corrisponde alle tue più intime idee sulle forme, le proporzioni, i colori, gli orizzonti, i suoni, i silenzi, le luci e i riflessi…nella tua professione vai in cerca di semplicità, proporzione, tensione, distensione, respiro.

Ingmar Bergman, Lanterna Magica

Leggo un libro sugli hotel letterari.
L’autrice, che ha fatto un lavoro di ricerca che è durato anni e che, si sente, sa di che cosa sta parlando, alla voce Zanzibar, scrive: «J’irai, andrò a Zanzibar. Ci andrò perché ne sogno come ho sognato di Trebisonda. Ci andrò senza altre ragioni, come a Tabriz, Ispahan e Chiraz, per realizzare i miei sogni meno stravaganti. Ci andrò perché il desiderio di Zanzibar mi impedisce la vista di rive più accessibili».
Zanzibar, Trebisonda e Ispahan fanno sognare anche me, ma non mi è mai passato per la mente di andarci.
Casomai ci va l’autrice, poi mi racconta.
Io da un pezzo, invece, volevo andare a Fårö.
Che cos’è.
Dove sta.
E perché ci volevo andare.

Ora vi racconto.

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CORONA BLUES, 2: SENTI COME MI BATTE FORTE IL TUO CUORE

Fra me e lui è una cosa seria.
Voi sapete come sono le cose serie.
Soprattutto di questi tempi liquidi, con relazioni che si liquefanno appena ti volti un momento.
Già fatto?
Con lui, invece. Pure se mi volto, lo ritrovo sempre. E ogni volta il fuoco riavvampa.
Più violento.
Dunque stamattina mi sveglio per tempo, faccio colazione e mi faccio une beauté.
E vado al mio appuntamento.

Tutto mi faceva pensare che sarebbe stato facile, la temperatura fredda ma già primaverile, il 64, che non prendo mai per via dei borseggiatori che lo affollano, praticamente vuoto, una strana fila, un po’ sgranata, che pensavo si sarebbe risolta rapidamente.
E invece no.
Perché pure la mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale, che inaugura oggi, deve fare i conti con il virus.

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POVERE DONNE

Camille Claudel, La valse, 1889-1905

La creazione parte da un vuoto. Se uno è troppo pieno, non c’è creazione. Se si immaginano Camille e Rodin lavorare insieme, chi ispira di più l’altro?

Juliette Binoche, intervista ai Cahiers du Cinéma, marzo 2013

Pagare tutto.
Non ricevere mai né uno sconto né un regalo.
Pagare il talento con l’allontanamento dalla famiglia.
Pagare una storia d’amore devastante, che sarebbe potuta pure andare diversamente (ma quante storie d’amore sarebbero potute andare diversamente), con una solitudine senza fine.
Pagare l’arte con il prezzo che di solito si paga per la follia: il manicomio.
E trent’anni di manicomio sono lunghi.
E poi arriva la morte e alla cerimonia funebre non si presenta nessuno e il povero corpo viene sepolto in un fazzoletto di terra destinato ad accogliere gli alienati.
E poi le ossa sono messe nell’ossario comune.
E non rimane traccia di Camille Claudel.
Anche se di Camille Claudel rimane la scultura.
E il ricordo.
Che oggi cerchiamo di ricomporre e organizzare: narrando.

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RIMEDI, 5. L’INDIFFERENZA

Antoine Watteau, L’indifferente, 1717

Sono padrone d’un grande arsenale di spiegazioni per ogni sentimento

Ingmar Bergman, Lanterna magica, 1987

C’è una scena in un film che mi pare sia La famiglia di Ettore Scola che ricordo terribile.
Un adulto, un nonno o uno zio, sta in una stanza e si mette a chiamare: «Paolino! Paolino!».
Paolino, un bambinetto, accorre, sgroppa, si precipita, si attacca alle gambe dell’adulto.
E l’adulto continua a chiamare: «Paolino! Paolino!».
E Paolino, sempre attaccato alle gambe, strilla: «Ma sono qui, perché non mi vedi, sono qui».
Il gioco feroce va avanti ancora un po’, con Paolino che, a un certo punto, ha una crisi terribile, di grida e di pianto.

Se volete sapere quanto male fa l’indifferenza, eccovi serviti.

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RIMEDI, 3. IMMAGINI, UN TRADIMENTO

René Magritte, Il tradimento delle immagini, 1929

La circolare faceva capolinea a piazza del Risorgimento e impiegava quarantacinque minuti ad arrivare all’università.
Bisognava partire per tempo, la lezione era alle 15:00, e tutto stava, in aula, nel sedersi in una delle tre file finali, che erano dotate di tavoli con una luce.
Se arrivavi tardi, eri costretto ad arrangiarti con le sedie che stavano più avanti, al buio (le lezioni si svolgevano e si svolgono al buio), con una torcia tascabile.
Non sono mai arrivata tardi, la lezione di Storia dell’arte moderna era diventata il centro della mia esistenza.
In aula ci stavamo tutti, matricole, laureandi, perfezionandi, a stare lì dentro provavo una sensazione di comunità che nella vita solo la scuola in senso alto mi ha saputo dare.
Quando arrivava il professore, era sempre seguito da uno stuolo di assistenti, uno dei quali portava il caricatore con le diapositive, come se fosse stata una pisside.
C’era un solo proiettore, piccoletto, non era nemmeno un Carousel.
Appena entrava il professore, l’aula piombava in un silenzio che trasudava sacralità e rispetto.
Iniziava la lezione.
Quante diapositive mandava il  Maestro?
Poche, ho ancora gli appunti, sui quali ancora studio.
La lezione durava meno di un’ora e lui poteva stare venti minuti su un’immagine.
Senza esaurirla.

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