Apriti cielo.
Non ho mai conosciuto un uomo italiano evoluto.
Quelli che sembravano evoluti, gratta gratta, non lo erano.
Poco male, sarebbe bastato saperlo.
Uno si regola.
Giocoforza, mi sono dovuta regolare con l’uomo italiano meno evoluto di tutti: era mio padre.
Lui pensava che le femmine avessero una specie di stigma che le teneva distanti dalle cose interessanti del mondo, guidare una macchina, studiare, farsi una professione.
Nella mia vita, però, io sono stata sociologicamente (chissà se l’avverbio è giusto) aiutata da alcuni fattori: nascita in una grande città, in una zona relativamente centrale; buone scuole pubbliche di quartiere; insegnanti ottimi, capaci di accogliermi e coltivarmi.
Del resto, ero un’allieva brillante.
In questo modo lo stigma non ha avuto conseguenze troppo sgradevoli, anzi, diciamo che è stato uno stimolo a farmi i fatti miei, cosa che, professionalmente, e qui l’avverbio è corretto, è avvenuta.
Per tutto ciò io posso immaginare che cosa ha dovuto passare Berthe Morisot, nata nel 1841, quando ha manifestato la sua ambizione di essere una professionista della pittura e non più solo una ragazza borghese agiata che si dilettava con tavolozza e pennelli.
Fra uno che si occupa di arte e Berthe Morisot la storia è lunga, fosse solo per la relazione profonda e complessa che lei ha avuto con uno dei più grandi artisti di ogni tempo.
Lei è stata modella e cognata di Edouard Manet.
Quando al cimitero di Passy a Parigi ho visto che loro due erano sepolti insieme, ho pensato a quella poesia di Michele Mari dedicata alla sua Ladyhawke:
Se mi emoziona
pensare una targhetta sul citofono
con i nostri cognomi congiunti
se prima di addormentarmi
mi studio di variarla
in ottone
in ferro smaltato bombé…
Qualcuno mi ha fatto notare che era comunque la tomba di famiglia, però l’effetto citofono ci stava tutto.
Per intenderci, lei è questa qui, quella con il bouquet di violette appuntato sul petto, in una sinfonia di neri che riesci a cogliere solo se stai davanti al dipinto.
Meglio così, non ci si accontenta dell’arte vista su una pagina o su uno schermo.
E Manet, quando dipinge lei, dipinge ancora più potente.
Con Berthe Morisot io ho contratto un debito perché, pur avendo visto tempo fa una sua mostra a Martigny, Svizzera, non mi ero staccata dall’idea che lei fosse, appunto, prevalentemente una modella, dunque in una posizione laterale rispetto agli altri artisti.
Sarà stato perché giocavamo entrambe fuori casa, ma c’è voluta l’altra mostra, quella che ho visto qualche giorno fa al Musée d’Orsay a Parigi, per aprirmi gli occhi.
Eccomi, dunque, a cercare di farmi perdonare.
Dedicherò un paio di lezioni a quest’artista straordinaria ma, mentre sono alle prese con il suo catalogo, voglio cominciare a presentarvela.
E ho scelto allo scopo una delle sezioni dell’esposizione, quella dedicata alle donne al lavoro, perché secondo me il lavoro è uno dei momenti più alti in cui una donna può esprimersi, qualunque tipo di lavoro, da quello quotidiano in casa a quello che porta al compimento di grandi imprese.
Ma procediamo con ordine.
Figura fondatrice dell’Impressionismo, dotata di una tecnica fra le più audaci fra quelle espresse dal gruppo e dal gruppo considerata una consorella, Berthe Morisot è stata protagonista di un percorso eccezionale, che negli anni hanno cercato di mettere in luce gli studi a lei dedicati, sempre, però, con un occhio rivolto ai freni nei quali sono incappate le donne artiste.
Darei per scontato l’argomento e passerei ad altro.
Nata in provincia, a Bourges, nel Centro-Valle della Loira, ma trasferitasi per tempo a Parigi con la famiglia, Berthe Morisot si forma in atelier privati.
L’Ecole des Beaux-Arts sarebbe divenuta accessibile alle donne solo alla fine del secolo.
Per lei c’è anche la possibilità di studiare con Corot, che le insegna un approccio realistico al paesaggio, e di praticare la copia al Louvre, che rimarrà per lei un luogo di elezione.
È del resto nel grande museo che lei conosce Manet, per il quale comincia subito a posare.
Facciamoci due conti: lei al momento ha ventisette anni. Sposa, dopo averlo frequentato, il fratello di Manet, Eugène, quando ne ha trentatré.
La signora Anna, titolare di una delle mie due lavanderie, mi dice sempre che quando lei era ragazza, cioè alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, una donna non maritata era considerata zitella a diciannove anni.
Quindi, Berthe, già solo per questo, è stata protagonista di una vita singolare.
Il tempo non perdona, intendo il tempo al femminile.
Eppure.
Lei, unica donna, fa parte della trentina di artisti che espongono nel 1874 alla prima mostra del nascente Impressionismo.
Avrebbe partecipato a sette esposizioni su otto, saltandone una per la nascita della figlia Julie.
E ci sembra anche giusto.
Pratica una pittura chiara, lavora en plein air, ovvero all’aria aperta, con lei assistiamo alla piena fioritura di quell’estetica dell’istante così cara al cuore degli Impressionisti.
Basta quadri religiosi, storici, mitologici, basta tocco rifinito, lustrato, lisciato della pittura accademica, lei è un’esploratrice radicale del non finito, certe volte lascia intere zone non lavorate sulla superficie della tela.
Vi faccio un esempio.
Qui, nella Donna con bambina sulla terrazza, inserisce le figure all’aperto e nello stesso tempo ci offre un’immagine della vita quotidiana di una signora del suo ambiente, in questo caso della sorella, che posa per lei con la nipotina, in un contesto urbano, in una società che sta assaporando nuovi modi di passare il tempo, che qui chiamiamo semplicemente moderni.
Perché moderni sono.
Il volto di lei è poco definito, quello della bambina, non visibile.
Sulla destra in fondo vediamo la cupola d’oro de Les Invalides, dove c’è la tomba di Napoleone.
Siamo a Parigi e c’è qualcosa di nuovo nell’aria.
Voglio farvi vedere un esempio anche della sezione Femmes à leur toilette, perché è bellissima, perché anche Baudelaire si è occupato della toletta e perché anch’io la pratico abbondantemente. Trascorro infatti circa due ore e mezzo al giorno nella stanza da bagno, uno dei motivi per cui non ho mai dormito in una tenda, in una tenda, dove la fai, la toletta.
Qui la modella è una professionista, si vede benissimo l’audacia della pennellata e siamo ammessi a un rituale che è tornato a essere privato dopo l’esposizione dei secoli precedenti. Voi pensate solo alla cérémonie du lever di Luigi XIV, quando il Re Sole inizia la sua giornata in una liturgia complessa, pubblica, frequentata da tutta la corte.
(Praticamente, un incubo).
Qui la giovane donna è ritratta di spalle e sta finendo di pettinarsi. È circondata di oggetti, il vaso di cristallo, i fiori, la coppa, immersa in toni di lavanda, rosa, blu, bianco e grigio, l’artista firma sulla cornice dello specchio, quasi a indicare l’inafferrabilità dell’immagine, destinata a essere solo un riflesso.
Sentiamo odore di cipria, ci ricordiamo dei numerosi codici di abbigliamento che una femme du monde doveva rispettare, usciva per andare a cavallo, a un ballo, a teatro, a una cena, ogni momento era inventariato e lei si cambiava anche otto volte al giorno.
Sentiamo l’erotismo.
E su questo argomento dovremo tornare. Se è una donna artista ad appropriarsi della descrizione della seduzione, nei secoli appannaggio maschile, come accade ancora oggi, allora significa che tutto il nuovo che c’è nell’aria è audace sul serio.
Ma parlavamo di lavoro.
E adesso seguitemi, non commettete il mio medesimo errore di quando catalogo tutti allo stesso modo i dipinti realizzati da donne artiste in cui compaiono bambini.
Ci sono modi e modi di ritrarli.
Berthe Morisot ha una visione della maternità e dell’infanzia articolata, nella quale compaiono la nourrice e la bonne, ovvero la balia, ma anche tata andrebbe bene, e la cameriera. Ma pure serva è adatto.
Sono donne che lavorano per lei, che è una borghese, però, vi faccio notare, anche lei lavora, visto che dipinge. Ecco perché inserisco in questa nostra galleria, accanto alla bambina accudita dalle persone incaricate di occuparsi delle faccende domestiche, e sono domestici pure i bambini, anche l’autoritratto dell’artista, magnifico, con i fiori sulla blusa, unico caso in cui lei si ritrae sola.
E intenta al suo lavoro.
Le domestiche per Berthe Morisot sono personaggi importanti nell’andamento della domus, lei le indaga con simpatia, non c’è niente nel loro lavoro di faticoso o di estenuante, quello che io dico sempre, andare da qualcuno a occuparsi della casa è un impegno più che nobile per una donna, in fondo tutte le donne, anche se a livelli diversi, si occupano dell’ambiente nel quale stanno.
Guardate la grazia della bonne che cuce in giardino, che, sappiamo, si chiama Pasie e che è intenta a una delle più tradizionali occupazioni femminili. Ricordiamoci sempre dell’amata Francesca Rigotti e del suo Il filo del pensiero, le donne con il filo hanno un rapporto profondo, tessono, ricamano e cuciono, certo, però, pure, pensano.
E guardate che cosa fa la Blanchisseuse, altrove, presso altri pittori, un’operaia che si occupa del bucato, qui, invece, una protagonista dell’attività della casa, qui siamo a Bougival, quindi è una casa di vacanza e sappiamo tutti quanto ci sia sempre da fare quando ci si trasferisce per un po’ e si cambiano le proprie abitudini.
Stendere la biancheria è un’operazione geometrica, c’è una tecnica, ci sono delle regole, qui, però, c’è anche la gioia di stare all’aria aperta, di sentire l’odore della biancheria mischiato a quello dell’erba, noi sul corpo della ragazza non leggiamo la fatica.
Per capire meglio la differenza, vi propongo un confronto con il quasi coevo Les repasseuses di Degas, tutta un’altra musica, qui c’è sudore, c’è sforzo, l’operazione della stiratura è una corvée cui le donne sono sottoposte, in Degas si sente la durezza della metropoli moderna, che qui si esprime con un umore anti-poetico.
L’aristocratico Degas, per quanto sapiente e dotato di occhio lungo, dubito che si sia mai stirato una camicia da solo come qualcuno che conosco.
Avrà avuto un esercito di valletti tale e quale al Re Sole.
Insomma, sto dicendo che i due artisti, uomo e donna, alle prese con la biancheria, arrivano a risultati diversi perché seguono diverse intuizioni.
Poi è sempre vero che il grande romanziere, Flaubert, Tolstoj, Joyce, si infila nel corpo di una donna e te lo descrive dall’interno e, lo dico da donna, ci riesce.
Si chiama letteratura. Però come facciano questi, per me rimane un mistero.
E, visto che siamo passati per Degas, grandissimo signore dell’impaginazione intrepida e ardita, voglio mostrarvi anche che cosa sa fare Berthe Morisot in proposito.
Il dipinto Nella sala da pranzo ci mostra una domestica di spalle in un interno.
La figura femminile è completamente spostata sulla destra e ci dà l’impressione di fondersi nell’ambiente.
È ritratta, inoltre, intenta alle sue faccende, laddove e per esempio, Renoir utilizzava balie, cuoche e serve anche come modelle, facendole passare senza troppo preoccuparsi dalla posizione di Venere o di odalisca a quella di rammendatrici di calzini. Lo racconta il regista Jean Renoir, figlio dell’artista e ce lo dice il catalogo della mostra, che è bellissimo e che porta una ventata di aria diversa non solo sulla figura di Berthe Morisot ma anche su tutta la storia dell’arte.
Un altro modo di occuparsi di pittura al femminile è possibile, senza stare a rimuginare sugli ostacoli che incontrano le donne e senza essere troppo di parte, infilandosi in un cul de sac ideologico.
Le opere stanno lì, il nodo è presto sciolto, servono le mostre, servono i documenti, serve la visione diretta, fresca e con tanta aria che circola, serve conoscere l’artista.
Ve lo dico io, che per tanto tempo ho trascurato Berthe Morisot e che ora sono tutta presa da lei.
In mostra ho visto anche i suoi taccuini, i diari con gli appunti dedicati ai libri da leggere, con gli schizzi e con i commenti sugli altri artisti.
Molte sono le annotazioni della figlia, che a diciassette anni si ammala di una brutta influenza e che contagia la madre, che muore.
Una storia triste, una vicenda esistenziale e artistica che si conclude nel 1895, che per noi è ancora tutta da studiare e frequentare e che oggi vogliamo riprendere, amare, raccontare.