La distanza è di 11 metri.
Quella del calcio di rigore, che dà la possibilità all’uno e all’altro, al portiere e al rigorista, di guardarsi negli occhi.
Solo, qui le posizioni sono invertite, per cui voi che potete muovervi diventate il portiere. La statua, o, meglio, la scultura, statica per definizione (insomma, si fa per dire), lei diventa il tiratore.
E potete provare un unico sentimento: quello della paura, tanto bene descritto in un romanzo (Peter Handke) e in un film (Wim Wenders) memorabili.
La paura del portiere prima del calcio di rigore.
Con sculture come queste, mettetevi l’animo in pace, non c’è scampo. Voi entrate nel loro radar e quelle vi infilzano.
Ma procediamo con ordine.
Per come si sono messe le cose in quest’estate in conclusione, la scultura si è imposta come un’evidenza.
E allora vado a farmi un giro al Louvre, il giro che cerco di farmi annualmente, e decido per la sala già Mollien dell’ala Denon, ovvero Canova, passando per Michelangelo.
(Non capisco mai perché uno che sale sull’Himalaya si porta la guida e lo sherpa e casomai anche un po’ di attrezzatura e, invece, quello che entra nel Louvre – 8 milioni di visitatori l’anno – ci va tutto tranquillo, senza rendersi conto che alla terza sala il gusto è finito e comincia la stanchezza, occhi vitrei e andatura da zombie. Suggerisco sempre di organizzarsi).
In quest’estate va così, incontro dunque ancora una volta Donatello, con il quale ho già avuto a che fare per questioni che riguardano la sua Firenze.
Il suo tondo con la Madonna che adora il Bambino, chiamata Madonna Piot dal suo proprietario, mi incanta. Per prima cosa, la tecnica.
Lui è proprio un selvaggio, uno talmente anticlassico che non si capisce mai come infilarlo dentro il Rinascimento.
Qui, poi. Il tondo è in terracotta, con incrostazioni di vetro e cera, è, cioè, un’opera che prende la luce in ogni punto in modo diverso, è ruvida, poi brillante, poi liscia e poi scabra, con lei triste e ritrosa, con un velo di una maestria che lo rende quasi trasparente (eppure la materia è quasi sorda), tutta in estasi davanti al bambino che scappa dal tondo da tutte le parti, un bambino di pura materia, con qualche gioco in mano, che, chiaramente, sembra pesante.
Bellissimo lo sfondo, con i tondi con le anfore e gli angioletti.
Donatello, come sempre, spiazza. Devo ristudiarmelo, devo rivederlo, lui così scaricatore di porto pure quando non c’è mare, violento, volgare se gli garba, dionisiaco, voglio dire: ubriacone.
Mi chiedo sempre di che qualità sia stata la sua amicizia con Brunelleschi, che io immagino come un gran signore. Che cosa si dicessero quando viaggiavano insieme per venire a Roma, quali fossero le osterie che frequentavano, se si mettevano a ragionare sull’Antico seduti su un pezzo di architrave di notte nel Foro. Certamente imprecavano in toscano e andavano al bordello.
Equilibrio, quiete, rigore, simmetria del Quattrocento.
Quante stupidaggini, nella storia dell’arte.
Questo, poi, ti schianta. Tutte le volte che lo incontro nasce in me un lacerante desiderio di avere una guida e uno sherpa. Ho fatto due visite guidate private alla Cappella Sistina. Questo significa lui, io e una trentina di persone che avevano pagato una cifra interessante (più il biglietto di ingresso) perché i Musei Vaticani fossero aperti fuori orario e senza altro pubblico.
Preparazione: un paio di mesi di studio.
Risultato: decente.
Conseguenze: tutte e due le volte sono uscita e mi sentivo male.
Ma male sul serio. La prima volta mi sono misurata la temperatura e ho visto che era salita oltre i 39. La seconda, ormai avevo capito, mi sono messa a letto e ho chiesto scusa al Maestro per aver osato affrontarlo.
(Non so se la mia professione sia nella lista dei lavori usuranti, però ci dovrebbe entrare di diritto).
Anche questo è incatenato, come il compagno che gli sta accanto, che però cerca di ribellarsi. «Superbamente giovane e bello, sembra abbandonarsi al sonno, forse eterno. Lo hanno chiamato lo Schiavo morente…Entrambi concepiti da Michelangelo per il sontuoso monumento funebre che papa Giulio II sognava di farsi innalzare e che conobbe non poche vicissitudini nei quarant’anni di programmi successivi».
Alto oltre due metri, sta sistemato magnificamente nella grande sala inondata di luce nel limpido pomeriggio di fine agosto.
Visitatori piccoli come insetti gli girano intorno, io sto bene attenta a non voltargli le spalle, la possente figura, tutta liscia in alcune parti, si stacca come se fiorisse dal marmo lasciato altrove quasi allo stadio iniziale, martello, scalpello, raspa, gradina, trapano, ci sono i segni, come se l’artista avesse lasciato perdere la sua ricerca di assoluto perché non ce la faceva a raggiungere il suo ideale. (Quello che si chiama il non finito michelangiolesco)
Memoria visibile della lotta furiosa che c’è stata per tirare fuori dalla materia la figura bellissima e sensuale, figurati se non se l’è accarezzata tutta, il Maestro, le mani sporche e potenti sulla carne che gli deve essere sembrata calda.
(E anche quest’altra scultura ha messo in rete il pallone. Con il povero portiere cui non resta che tentare di riprendersi dalla paura).
Ci sono un paio di Bernini, che guardo con simpatia. Questo è stato il suo anno, la mostra bellissima alla Galleria Borghese, le visite reiterate alla sua tomba in Santa Maria Maggiore, uno si immagina un catafalco e lui invece ha deciso di riposare sotto un gradino a destra dell’altare maggiore, con un’iscrizione che dice che lì giace umilmente. Eccetera. Un colpo di teatro, un altro tiro in porta che ti prende in contropiede, la gloria delle arti e della città che ha smesso di fare il teatrante barocco e che si fa per sé la più semplice e rigorosa delle sepolture.
Ma, come ebbe a dire quello storico tedesco, «meglio sarebbe stato per la scultura se Bernini non fosse mai esistito». Che significa, che è il più grande di tutti?
Lo dice lui, mica lo sto dicendo io.
(Se definisci Bernini solare, gli fai un torto, perché lui è il sole. Per una lunatica e lunare qual io sono, l’interlocutore perfetto).
Bernini fece un viaggio simbolico a Parigi nel 1665, a 67 anni, chiamato da Luigi XIV e con un gran seguito di assistenti, cuoco e domestici.
Uno che sapeva stare al mondo.
Per lui si scomodarono tutti, fu accolto come un principe e il cardinale Richelieu gli donò un gioiello con incastonati trentatré diamanti pur di avere un busto di sua mano.
Lui dimostrò una «sicurezza perfetta», ma non ci pensò nemmeno un momento a rimanere là. Se ne tornò a Roma, tutto contento di ritrovare la sua città e di liberarsi di quei francesi ligi al cerimoniale.
Lui era un «focoso individualista italiano», accettò graziosamente la più che generosa ricompensa in denaro e dopo un po’ più di quattro mesi ripartì.
Nella carrozza a sei cavalli che gli era stata messa a disposizione, secondo me l’irresistibile maestro tirò un sospiro di sollievo.
Aborriva Parigi.
(Se viene a sapere quanto, invece, piace a me, pure lui mi strafulmina).
Ma sono venuta qui per Canova, quindi: eccolo.
In particolare oggi sono decisa a capire perché Roberto Longhi, che rimane per me il massimo storico dell’arte italiano che mai sia stato in azione, pensasse di lui quelle cose orrende.
La prima cosa da dire è che Pasolini è stato allievo di Longhi a Bologna e che ha scritto di lui parole che lasciano il segno: «Longhi era semplicemente uno dei miei professori all’università: ma l’aula dove insegnava era un posto diverso da tutti gli altri, fuori dall’entropia scolastica. Esso è escluso e isolato. Al centro di questo ambiente diverso (per ragioni funzionali: la possibilità di proiettare diapositive ecc.) c’era un uomo che era in realtà veramente un uomo».
E già siamo un pezzo avanti.
Poi: ««Longhi era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione. Egli cominciava a balbettare dietro al maestro. La cultura che il maestro rivelava e simboleggiava si poneva come alternativa all’intera realtà fino a quel momento conosciuta».
Direi che ce n’è a sufficienza.
E allora, perché un uomo «sguainato come una spada» detta per Canova nell’aprile del 1946, a proposito delle sue opere definite «svarioni cimiteriali», il feroce epitaffio che recita così: «Antonio Canova, lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove».
(Comunque, Longhi ha ben arguto il senso della formula).
(Chiarisco anche che il cuore di Canova è conservato nella basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia e che il calco della sua mano è, appunto, all’Accademia).
Né Longhi è stato il solo a parlare male di Canova, lo hanno fatto altri.
Ma perché proprio lui, così fine, visionario, intuitivo?
Mi avvicino prima a Eros e Psiche stanti, il sole del pomeriggio colpisce la base e i piedi di lei, il gruppo è sistemato vicino a una finestra, di botto e violentemente invidio Belfagor, che può vederseli di notte.
Io qui, una degli otto milioni che passano da queste parti tutti gli anni.
La cosa che sempre mi colpisce nel mirabile gruppo è che lei sia più alta di lui. Se a me capita di uscire con un uomo più basso di me, che sono alta normale, mi pongo il problema, ma non quello dei tacchi, piuttosto mi pongo il problema di come mi metto in relazione con quell’altezza. Dall’altra parte, gli uomini molto alti sono ugualmente problematici, anche se per altri versi.
(Facciamo 1 metro e 80 e non ne parliamo più).
Loro sembrano assolutamente a loro agio. Lui, completamente nudo. Lei, squisitamente protetta da un drappo. Lui le tiene un braccio su una spalla, da sempre mi chiedo come mai quel mascalzone di Eros sia stato poi innamorato una sola volta nella sua vita eterna.
Gestire in scultura due personaggi in piedi è un’arte difficile. Canova ci riesce perfettamente: niente è statico, loro sono una dualità che mostra una complicità autentica, giocano fra loro, gli sguardi, le mani, i corpi che si sposano, che vanno uno verso l’altro.
Non è possibile pensarli divisi.
Ma Longhi, l’ha visto tutto questo?
Lei posa una farfalla sulla mano di lui e questa farfalla simboleggia la sua anima, che lei gli offre.
Una meraviglia.
(Lui ha la faccia da puppo? Lei ha l’espressione da pupazza? Forse, un po’, forse Longhi voleva dire questo).
Accanto al gruppo Psiche risvegliata dal bacio di Amore c’è una panchetta. La panchetta è piena di gente, stanno tutti ammassati uno sull’altro come sull’autobus all’ora di punta. E sono pure italiani, per cui fanno un sacco di caciara e dicono un sacco di stupidaggini e certo non stanno seduti in contemplazione di Canova.
Spero che arrivi Belfagor e vi metta un sacco di paura a tutti.
Psiche ha perso Amore perché ha infranto il patto. Per riconquistarlo si sottopone a prove terribili. Venere l’ha mandata da Proserpina, dea del mondo sotterraneo (una underground, nel nostro linguaggio) che le consegna una fiaschetta, che lei non dovrà mai aprire. Ma la curiosità è donna, e Psiche ci casca. Il sonno del contenitore la invade e lei si addormenta.
Ma il lieto fine è in vista e Amore la risveglia pungendola con una sua freccia, offrendole nettare e ambrosia per dotarla di immortalità.
Il virtuosismo dell’opera mozza il respiro: la roccia reca tracce deliberate dello scalpello dentato; la stoffa a terra è più pesante, quella che avvolge i fianchi di lei quasi trasparente; la pelle è liscia (l’artista aveva speciali attrezzi ricurvi che gli permettevano di raggiungere perfino le aree più inaccessibili); la fiasca del sonno, modellata a parte, è stata ripassata con polvere lucidante e lustrata e incerata per simulare il metallo; le ali di lui, lavorate a parte anch’esse e inserite sulla schiena in due alloggi, sono straordinariamente spesse e fisiche e quando la luce del sole le colpisce diventano traslucide e acquisiscono riflessi d’oro.
Il gruppo ha forma piramidale e combina equilibrio e senso della rotazione, rotazione che poteva (potrebbe) avvenire anche realmente, visto che la maniglia che c’è serve proprio a farlo girare, cosa prevista anche per altre sculture di Canova, per poterle osservare da tutte le parti.
(Questi scultori oggi mi hanno fatto proprio un bel cappotto).
Longhi, ma che t’è venuto in mente?
Certo, provando a infilare lo sguardo fin dove può arrivare, è vero che lui ha la faccia da manichino, ma credo che sia bello per questo, così come lei ha una bellezza idealizzata e, a suo modo, astratta, senza un muscolo, un tendine, una vena, altro da Michelangelo, altro da Bernini.
Bene fece Flaubert che, in viaggio in Italia, vide il gruppo a Villa Carlotta, a Tremezzo, vicino a Como.
Rimase folgorato.
Scrive: «Non ho più guardato altro nel resto della galleria; sono ritornato a più riprese e all’ultima ho baciato sotto l’ascella la donna in estasi che tende verso Amore le sue lunghe braccia di marmo. E il piede! E la testa! E il profilo! Che mi si perdoni, quello è stato da molto tempo il mio unico bacio sensuale».
Personalmente e con più rischio, una volta io ho dato una bella pacca sul magnifico sedere del Ganimede al Museo Thorvaldsen di Copenaghen (e non voglio nemmeno sapere che cosa pensasse l’immenso storico dell’arte dell’altro neoclassico): non ho saputo resistere, ho pensato adesso suonano tutti gli allarmi, adesso arriva la sorveglianza e devo spiegare che sono un professore eccetera che non sa trattenersi davanti al richiamo dell’arte.
Niente.
Non è successo niente.
Il museo era (forse è ancora) squisitamente vecchiotto, quindi sorvegliato artigianalmente e probabilmente l’unico custode stava sonnecchiando.
Fra me e Ganimede, tutto un programma.
Proprio come fra Flaubert e Psiche.
Con buona pace di Roberto Longhi, che staremo religiosamente a sentire un’altra volta.