
Erika Lee Sears, Self Care, 2021
È un film brutto. O, almeno, non ha niente del capolavoro.
Ho appena sentito alla radio che la New York fra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 era un luogo straordinariamente creativo.
Come dice Don Giovanni: me ne consolo.
Nel senso che me ne rallegro.
Ironicamente, tale e quale a Don Giovanni.
Le creazioni di quelli che abitano quella New York sono raccontate da Woody Allen in Manhattan (1979).
E sono inesistenti.
Da quello che si vede nel film, gli intellettuali che stanno da quelle parti passano il loro tempo facendo cose che oggi a me appaiono prive di senso.
Stanno continuamente in giro fra mostre e ristoranti, cinema e feste, vivono come i dannati di un girone infernale nel quale tutti dicono castronerie, hanno sentimenti confusi sui quali imbastiscono relazioni di nessun interesse, considerano bellissime donne che a me sembrano bruttine, degli uomini è meglio non parlare.

Woody Allen, Manhattan, 1979
I film bisogna rivederli.
A mente fresca e dopo che è passato il tempo.
Ce ne sono che reggono l’urto e che rimangono dei grandi film.
E ce ne sono che sembrano delle invenzioni momentanee, dei prodotti il cui tempo è finito, certo sono pure io, non ho mai apprezzato Woody Allen, eppure l’ho rivisto quasi tutto nella versione originale, soffrendo un po’ e pensando che avrei potuto vedere altro.
E Manhattan, fra tutti quelli del cineasta americano, è il mio film prediletto, e la città è una meraviglia, ritratta in bianco e nero e ripresa in tutti i suoi momenti più alti, con la musica di Gershwin e la sontuosità delle sue luci, tutte e sempre, soprattutto quelle della nerissima notte.
(Però il merito va parecchio a Gordon Willis, direttore della fotografia).
Ho detto che è una meraviglia la città, non la gente che la abita.
Quella, per quanto mi riguarda, può sprofondare nel suo inferno e continuare la sua corsa verso il nulla.
E dei loro sentimenti posso fare a meno: aridi, incompleti, mal espressi, così apertamente anti-erotici (il regista che parla continuamente di sesso, il sesso non sa filmarlo e mi viene il dubbio che manco sappia dove sta di casa), che di Eros ti fanno passare la voglia.
Non sia mai.
Meglio, molto meglio, cambiare film.
E regista.
È un film bello.
Anzi, meglio, è un bellissimo lungometraggio, una cosa che ha una durata un po’ inferiore a un film, dunque, più moderna (ormai apprezzo solo ciò che non mi inchioda da una parte per troppo tempo).
Inoltre, per far apparire simpatici a me tre ragazzi corrispondenti, ciascuno a modo suo, a tre tipi d’uomo che detesto, evidentemente è successo qualcosa.
Qui vi avevo già parlato della Nouvelle Vague spagnola.

Jonás
Jonás Trueba mi piace molto, fa cose che dovrebbero fare tutti i giovani registi (chissà perché i giovani registi nostri fanno altro).
Inoltre è un romantico e il suo lungometraggio inizia proprio con una nota dedicata al romanticismo, quello che tutti studiamo a scuola e che pratichiamo nella vita, casomai senza accorgercene.
I suoi tre protagonisti partono da Madrid su un furgone color arancio che hanno avuto in prestito da un’amica della madre di uno di loro.
E dove vanno.

Jonás Trueba, Los exiliados románticos, 2015, Illustrazioni dal libretto del film
Vanno alla ricerca di amori perduti, non consumati, abbandonati, amori effimeri come ce ne stanno tanti, talmente banali che uno dice ma a noi che ce ne importa.
E invece.
Ce ne importa perché quegli amori lì li abbiamo vissuti pure noi, cose estive, oppure irrisolte, oppure intraviste, cose che sarebbero potute essere e non sono state, negli amori c’è sempre questa percentuale di realizzazione mancata che chissà se è fortuna o disgrazia.
Da Madrid i tre ragazzi, che non hanno nessuna qualità particolare, anzi, che sono vestiti in modo approssimativo, che probabilmente non si lavano, che non finiscono l’università, che non sanno che cosa faranno di se stessi, vanno a Toulouse, poi a Parigi, poi fanno il bagno nel lago di Annecy.

Eric Rohmer, Le genou de Claire, 1970
E qui l’omaggio alla Nouvelle Vague, quell’altra, è palese, perché questo è il luogo di uno dei film di Rohmer, Le genou de Claire, e come fai a non pensarci.
E come fai, se sei un giovane regista, a non andare a guardare che cosa hanno fatto gli altri come te prima di te.
La sensazione di leggerezza è la medesima, non dico che ti riconcilia con l’esistenza, anzi, dell’esistenza tira fuori il vuoto, tutti sono alla ricerca di sensazioni che diano loro una prova del loro essere in vita.
Poi ci vedi dentro quello che ti pare, come sempre con i film piccoli che sono poi, nella sostanza, grandi.
E Jonás Trueba, oltre a saper raccontare così bene il quotidiano, il casuale, il transitorio, è uno con una spiccata sensibilità per il colore.
Dappertutto ci sono dettagli cromatici prepotenti, che se stai attento assumono mano a mano un peso sempre più rilevante, niente è casuale nelle sue scelte, nemmeno la camicia approssimativa, l’ombrello che la ragazza italiana tiene sempre in mano, la tonalità di rosso del vino che c’è nel bicchiere.
Di macchine arancioni in giro ce ne sono poche, però le due che ho incontrato da quando ho visto il lungometraggio mi sono sembrate portatrici di una ventata di fantasia.

Ford Model T, 1925
Non mi riconosco più, io che in vita mia ho avuto solo macchine blu, io che sono d’accordo con Henry Ford quando diceva che la sua Model T si poteva avere in ogni colore, purché fosse nero.
Insomma, sto dicendo che questo è ciò che cerchiamo tutti in un incontro: che ci faccia cambiare idea, sugli uomini, le donne, gli amori, il colore della macchina.
Ho detto incontro, e qui intendo film, e regista, e protagonisti, e città che il regista ritrae e che i protagonisti raggiungono.
Forse non è un caso che in questo periodo io veda come contrapposti il bianco e nero di Manhattan e il colore di Trueba; i discorsi intellettuali eppure vacui della gente del film di Woody Allen e le chiacchiere ben meno inconsistenti di quello che appaiono dei ragazzi che partono dalla Spagna.
Forse non è un caso che un film mi abbia delusa e l’altro entusiasmata.
Forse è l’aria del tempo.
E, a proposito di cinema, trovo straordinariamente cinematografica la giovane artista americana che metto in apertura, che si dichiara autodidatta, che ho incontrato attraverso un conto IG che seguo e che ha ossessioni di tutto rispetto: l’alcol, i calici, i pesci rossi, i cosmetici, i limoni, la vasca da bagno.
È come se lei facesse continuamente il bagno.

Howl
In questo medesimo umore, mi ricordo di due appunti presi in due circostanze diverse, vedendo un film e leggendo un romanzo.
Fa continuamente il bagno Howl, quello del castello errante; e fa continuamente il bagno «the flamboyant» Lady Brett Ashley, quella de Il sole sorge ancora di Hemingway.
Credo che sia ora, come suggerisce questo ulteriore incontro, di rimettersi in vasca.
E di aprire una bottiglia.
Quale idea migliore per festeggiare un incontro.