Riso amaro, Giuseppe De Santis, 1949, con Silvana Mangano

I Sapori dell’arte, 6. Lunedì 30 aprile 2018:  Il Sapore del  lavoro

Una delle domande che faccio più spesso alla gente è: «Ti (le) piace il tuo (suo) lavoro?».
La risposta più cretina che spesso ottengo è: «È un lavoro come un altro».
Cambio di scena.
«Ti (le) piace tuo (suo) marito?»
«È un marito come un altro».
Rendiamoci conto.
Vale lo stesso per la moglie, per l’appartamento, per il figliolo, il cagnolino o il micetto e, diciamolo, pure per la macchina?
Non mi sembra.
Dunque, proviamo a riflettere sul lavoro e a dargli un sapore, che potrebbe essere dolce ma anche amarissimo.
E cominciamo con Baudelaire, che sull’argomento la sapeva lunga.
«Bisogna lavorare, se non per gusto, almeno per disperazione, perché, tutto sommato, lavorare è meno noioso che divertirsi».
«Se lavori tutti i giorni, la vita ti sarà più sopportabile. Lavora sei giorni senza sosta».

Charles Baudelaire

«Un po’ di lavoro, ripetuto trecentosessantacinque volte, dà trecentosessantacinque volte un po’ di denaro, vale a dire una somma enorme».
«Più si vuole, meglio si vuole. Più si lavora, meglio si lavora, e più si vuole lavorare. Più si produce, più si diviene fecondi».
«Lavoro immediato, fosse anche cattivo, vale più della fantasticheria (ma rêverie è più bello)».

Sì, ma qual era il mestiere di Baudelaire? Passeggiava, guardava, scriveva, visitava mostre, frequentava locali pubblici, faceva abbondante uso di hashish, oppio, vino, viveva in una Parigi che a me, vista da dove sto io oggi, sembra bellissima, piena di opportunità e di gente interessante.
E raccontava tutto questo, in prosa e in versi.
Uno allora dice, e ti credo, che, così, si può pure lavorare senza sosta e che lavorare è meglio che divertirsi.

Troviamoci, allora, la nostra dimensione alla Baudelaire e, soprattutto, mettiamoci al lavoro.

La Treccani, che è diventata la mia migliore amica, si diffonde molto sul concetto di lavoro, arrivando a quattro pagine.
Molte sono le cose interessanti, per esempio che il lavoro è «in senso lato, qualsiasi esplicazione di energia (umana, animale, meccanica) volta a un fine determinato». Più comunemente, il lavoro è «l’applicazione delle facoltà fisiche o intellettuali dell’uomo rivolta direttamente alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale».
Dunque, c’è nel lavoro un sentimento di energia e di attività, qualità strettamente connesse alla vita, a quella vera.
Voglio subito vedere se c’è una differenza fra mestiere e professione  e faccio allora una rapida ricerca sullo Zingarelli.
Mestiere: «Esercizio di un’attività lavorativa, specialmente manuale, frutto di esperienza e pratica, a scopo di guadagno».
Professione: «Attività lavorativa. Attività intellettuale, per lo più indipendente, che si esercita dopo aver conseguito la laurea o una particolare abilitazione». (Però è anche interessante che questa definizione arrivi in terza battuta, i primi due significati essendo la «Pubblica dimostrazione di un sentimento, una credenza, un’opinione»;  e la pubblica promessa degli impegni che prendono i religiosi).
Ecco che è confortata la nostra idea che il mestiere sia manuale e che, la professione, intellettuale.
(Ma Cesare Pavese intitola il suo diario Il mestiere di vivere. Voleva forse dirci qualcosa a proposito della fatica che faceva a stare al mondo?).
Come sappiamo «fare il mestiere» significa esercitare  la prostituzione.
E i mestieri sono anche le faccende di casa, di solito riservate alle donne, insieme ad altre attività squisitamente femminili, «lavori d’ago, di cucito, di ricamo, a maglia». 
Una vita elettrizzante, non c’è che dire, nella quale qualche superpotere non ci starebbe male, fosse pure solo per fare più in fretta.

Ma andiamo a vedere qualcosa di arte, tanto per capire come gli artisti intendono il lavoro, quello altrui, perché se ci occupassimo del mestiere loro, questo articolo sarebbe allora dedicato all’autoritratto.

Tomba del fornaio Eurysaces, Roma, Porta Maggiore

A Roma, a ridosso della possente Porta Maggiore, ricavata dagli archi dell’acquedotto di Claudio, c’è una tomba molto eloquente, quella del fornaio M. Vergilius Eurysaces.
È, questa, arte plebea, con un committente, il fornaio, che si è arricchito con le forniture agli eserciti alla fine della repubblica e ordina per sé un sontuoso sepolcro, con il fregio che rappresenta le varie fasi della panificazione su scala industriale e ci fa vedere quello che accade nella realtà. Magnifico episodio dell’espressione di una classe sociale che si arrampica con prepotenza, un po’ come il Trimalcione del Satyricon di Petronio, un liberto, ossia uno schiavo affrancato, ormai ricco e potente, rimasto, però, ignorante. Quando dà disposizioni per la sua sepoltura, è come se si fosse parlato con il fornaio cinque minuti prima.

Fratelli de Limbourg, Les Très Riches Heures du duc de Berry, 1411

Maestro dei Mesi, Settembre, 1220/1230

Lavori che vanno con le stagioni compaiono lungo tutto il corso dell’arte medioevale.
Per esempio, nelle formelle dei Mesi, opera di un anonimo Maestro dei Mesi,  che ornavano la porta omonima della cattedrale di Ferrara.
Scelgo per voi il Settembre della vendemmia, con il contadino con la cuffia in testa per proteggersi dalla caduta dei grappoli, la veste annodata alla coscia in vista della pigiatura e il motivo della cesta di vimini, così realistica, che rivela lo spirito di osservazione dell’artista.
E, nonostante il marmo sia abraso, si vedono ancora le vene della mano del vendemmiatore, che solo un occhio abituato a soffermarsi sui dettagli avrebbe catturato nell’insieme della decorazione.
Guardiamo anche il bellissimo calendario miniato, che va sotto il nome di  Très Riches Heures du Duc de Berry, realizzato da Paul, Jean e Herman de Limbourg verso il 1410-1411 per il duca Jean I de Berry, una vera enciclopedia delle attività che scandiscono lo scorrere del tempo e un inventario orgoglioso delle proprietà del committente, oltre che delle usanze di corte.
Essendo dedicati ad attività cortesi come la raccolta dei fiori e le passeggiate nella foresta i mesi più vicini a noi, guardiamo avanti con Luglio, quando c’è la mietitura e la tosatura del gregge, sullo sfondo di un castello scomparso che sorgeva accanto al fiume Clain.
Sotto uno spicchio di cielo con i simboli zodiacali corrispondenti, si svolge una scena di serenità e respiro in armonia con il mondo, come se il lavoro fosse ciò che scandisce le giornate e dà un senso allo scorrere del tempo.

Giovan Battista Moroni, Il sarto, 1570

Una dimensione borghese comincia ad affermarsi nella seconda metà del Cinquecento,  come nel caso del quasi bergamasco Giovan Battista Moroni, che ritrae Il sarto nell’esercizio del suo mestiere, un lombardo autentico, di quelli che, come ci hanno insegnato, sono orgogliosi dei risultati che ottengono con l’impiego delle proprie facoltà, in questo caso sia fisiche che intellettuali.

Personalmente trovo belle tutte le donne che lavorano, ovvero che hanno un sentimento attivo della vita, arrivando ai vertici di una Silvana Mangano  che esordisce nel cinema con Riso amaro (1949) interpretando il ruolo di una mondina e che è di uno splendore fisico che giustamente le conferisce il ruolo di primo sex symbol del secondo dopoguerra.
Ve l’ho messa in apertura di articolo, proprio perché mi sembrava che fosse perfetta per illustrare  quello che voglio intendere.
E trovo sempre interessante lo sguardo maschile (perlomeno quello dell’artista) sulle lavoratrici.
Voi prendete Velázquez, che, d’accordo, è grande in tutto, ma che arriva a sorprenderci quando diventa moderno al punto di superare i moderni stessi.

Diego Velázquez, Las hilanderas, 1657

Le sue donne sono certamente quelle che lui ha sorpreso al lavoro nella Fábrica de Tapices de Santa Isabel, intente ciascuna a un’attività e a un momento diversi del procedimento di filatura, con un gatto che fa loro compagnia, perché dove ci sono matasse e gomitoli i gatti si trovano sempre a loro agio. Però la chiave di lettura del dipinto sta in secondo piano e per la precisione nella scena che si svolge sullo sfondo e che narra una delle infedeltà di Zeus, in questo caso alle prese con Europa, che rapisce dopo essersi trasformato in toro.
Una storia nella storia, perché qui è narrato anche il mito di Aracne, ragazza lidia famosa per la sua perizia nel lavorare la lana, che osò accettare la sfida di Atena, che vediamo tutta armata come sempre si veste lei, irritata con la sventata che ha osato pensare di poterla superare nell’arte della tessitura.
Folle di rabbia e di gelosia, anche per il soggetto raffigurato, suo padre alle prese con un’avventura fuori dal letto coniugale, ma più probabilmente soprattutto per l’orgoglio ferito, la dea si avventa sulla rivale, fa a pezzi la tela e trasforma lei in un essere con una testa piccola, esili zampe e molta pancia. La creatura emette il filo e torna a fare tele come una volta, ma sotto forma di ragno.
In questa complessa e parecchio intellettuale rappresentazione del mito classico di Aracne, Velázquez, che racconta anche la supremazia della pittura, ovvero della propria arte, elenca una serie di attività femminili, quasi tutte connesse a un filo, quasi perché fra le faccende in cui le donne sono sempre occupate c’è anche la gelosia nei confronti delle rivali, esercizio che richiede un grande dispendio di energie, il tramare intrighi e vendette e, soprattutto, il parlarne con altre donne, altrimenti che gusto ci sarebbe.

Antoine Raspail, L’atelier de couture, 1760

Più tranquille le sartine dell’arlesiano Antoine Raspail, anche se, c’è da scommetterci, inclini al pettegolezzo, visto che le sole mani occupate tengono libera la lingua, con tutte le conseguenze del caso.
Ma il suo dipinto riflette anche il fervore e la vivacità della giornata, con una sapienza tutta speciale e godibilissima nella descrizione degli abiti e delle stoffe, un autentico trionfo dello stile di Provenza.

A occuparci delle attività femminili, dovremmo aprire più di un capitolo a parte e lo faremo, ma non oggi, momento in cui stiamo assaporando il lavoro.
Andiamo allora a vedere che cosa fanno gli uomini in questo senso.

Virile, muscolare, attento a quello che accade nella Londra vittoriana dove vive e lavora, Ford Madox Brown, quasi un preraffaellita, ci fa vedere che cosa succede quando si costruisce: si scava, certamente, mettendo in scena la forza fisica di giovani operai, ai quali spetta giustamente la ribalta della scena. Sembra quasi che non facciano fatica a sollevare una pala, come sempre accade nelle attività in cui si eccelle: il danzatore mantiene la sua eleganza anche sotto sforzo, il grande calciatore conserva il suo stile da fuoriclasse anche quando una fatica animale cerca di piegarlo.

Ford Madox Brown, Il lavoro, 1852-65

(E qui dobbiamo raccontare che l’artista stesso porta avanti e indietro la sua tela, larga circa due metri, tutti i giorni, usando uno speciale mezzo di trasporto. Pure lui, a fatica fisica, non scherza).
Ma la strada, e sto parlando di una strada di una città vitalissima, mette insieme classi sociali diverse: operai, certamente; ma anche i più disagiati, i bambini orfani in primo piano, uno dei quali in braccio alla sorellina più grande; il venditore di piante scalzo e vestito di stracci sulla sinistra; dietro di lui le signore con il parasole; i cavalieri in alto, ricchi e con un posto in società e senza bisogno di lavorare (lavoro inteso come fatica e condanna); i due intellettuali sulla destra, che lavorano con il cervello (sono Frederick Denison Maurice e Thomas Carlyle, socialisti e impegnati in attività di promozione culturale).
Perfino i cani convivono con ruoli sociali diversi: la grossa bestia che accompagna i bambini ha una corda al collo e guarda (con invidia?) il cagnetto con il cappottino rosso.
Un capolavoro, con il quale potremmo chiudere.

Ma voglio ancora mostrarvi Gli spaccapietre dell’assolutamente realista Courbet  e anche  la pausa del mezzogiorno degli operai di Thomas Anschutz, così virilmente scuri, visto che sono pure lavoratori dell’acciaio.

Gustave Courbet, Gli spaccapietre, 1849

L’artista americano sapeva di che cosa stava parlando: aveva passato l’infanzia a Wheeling, in Virginia, città siderurgica, dove aveva potuto vedere con i suoi occhi questi lavoratori, staccandosi definitivamente dalla mitologia della fucina di Vulcano e riscendendo a terra, con il cuore gettato dalla parte della fatica quotidiana e anche il gusto di raccontarla.

Thomas Anschutz, The Ironworkers’ Noontime, 1880

(Si riaffaccia in me, che faccio un lavoro intellettuale, l’idea, la superstizione?, sempre frequente, che il vero lavoro sia quello fisico e manuale)

Vi divertirà sapere che il dipinto di Anschutz, che nessun appartenente alla middle class americana si sarebbe mai appeso in casa,  dopo essere stato battuto a un’asta nel 1973 per 250.000 dollari, sarebbe stato poi acquistato per il doppio della cifra da John D. Rockefeller III, nipote di uno dei più spietati capitalisti: cattiva coscienza o il sentimento romantico che porta la signorina Rose sul Titanic a scatenarsi in danze popolari scendendo nella III classe?

Loomis Dean, Christian Dior che crea la collezione primavera-estate 1957, 1957

Ma è ora di chiudere e di invitarvi a venire a seguire la mia lezione, di cui qui vi ho proposto un assaggio.
Non prima però di avervi ricordato il lavoro difficile, durissimo e creativo oltre ogni possibilità di immaginazione per chi fa un altro mestiere, del couturier, in bilico fra arte e mercato, che rappresento qui con Christian Dior, ritratto in camice bianco nel suo atelier.
E dovremo anche parlare dell’uniforme da lavoro, qui uguale a quella del medico, del chimico, del farmacista, bianca, come bianco era l’abito indossato da Pitagora e come è bianco quello del papa, capo della Chiesa cattolica.
E vi suggerisco anche di domandarvi se secondo voi fare l’agente segreto è un mestiere, una professione oppure è altro, forse una di quelle attività alla Baudelaire, con l’aggiunta di belle donne e Martini «shaken, not stirred», mi raccomando.
E poi di chiedervi, come mi chiedo io, se le professioni moderne sono davvero individuabili, comunicatore, sviluppatore, esperto di Guerrilla Marketing, stratega web; se un macchinista di treni AV ha ancora qualcosa in comune con Il ferroviere di Pietro Germi, che la sera andava a cantare all’osteria e aveva un’accesa passione per il vino, o se non somiglia di più a un pilota di Formula 1. Chiedetevi se vi piace il vostro lavoro, se è quello che sognavate da ragazzini, se siete soddisfatti, delusi, disperati, se per caso non fosse possibile migliorare l’umore delle vostre giornate, chiedetevi, in una parola, qual è il sapore del vostro lavoro: dolce, amaro, agrodolce, gustoso, salato, acido, piccante, delicato, se il vostro lavoro ha un sapore forte oppure non sa di niente, se è delizioso o nauseante.

E chiudo con questa vignetta, che oggi è la mia firma.
Faccio il professore, però con il tempo sono diventata tale,  fra l’essere e il fare, a me lo hanno insegnato gli artisti, c’è una bella differenza.
Sono professore anche se faccio tante cose diverse, anche se sono impegnata su più fronti.
Mi piace il mio lavoro? Moltissimo.
Ne sono soddisfatta? Non del tutto.
Mi realizza? Direi di sì, nel senso che mi permette di esprimermi, di creare, di avere relazioni importanti, di studiare, di capire, di approfondire, di progettare, di realizzare, di poter entrare nella vita delle persone e fare qualcosa per renderla più interessante.

Voglio altro? Sì, certo, e voglio pure moltissimo, voglio talmente tanto che è probabile che non riesca ad averlo. Ma credo che si debba pensare in grande e approfittare di tutto quello che questo pensiero offre.

Che cosa farò il 1° maggio?
Festeggerò il lavoro, questo è sicuro.
Forse lavorando, cosa che, dopo tutto quello su cui abbiamo ragionato, mi sembra il festeggiamento migliore e la celebrazione più adatta.

Il mio omaggio al grandissimo baritono Dmitri Hvorostovsky, scomparso da poco, che ha lasciato un grande vuoto. Qui interpreta in un concerto l’aria Largo al factotum da Il barbiere di Siviglia (1813) di Gioacchino Rossini, un vero inno alle soddisfazioni che può dare il proprio mestiere