L’amica geniale.
Le posto una richiesta sul suo Profilo FB.
Le chiedo, per favore, consigliami una serie.
Lei sa.
Io sono una principiante, con quella attuale ho al mio attivo solo sette serie: due abbandonate perché mi avevano annoiata; una lasciata alla prima stagione su suo consiglio, per fare una pausa; una vista due volte di seguito; due divorate; quella in corso.
Lei mi risponde che ci pensa; ci pensa; mi risponde.
L’elenco è sobrio, circostanziato, finissimo.
A un secondo contatto mi rendo conto che c’è un penchant, ovvero una simpatia molto evidente, per The Killing.
E  allora mi metto a cercare The Killing.
Sembra facile.
Non è facile per niente.

In origine la serie viene dalla Danimarca ed è durata tre stagioni. I dvd sono disponibili, sono in danese con sottotitoli, una recensione dice che è una visione faticosissima, ascolta e leggi sotto, non so, io sono una grande sostenitrice delle versioni originali, quelle doppiate dovrebbero essere limitate come destinazione ai bambini e agli analfabeti, dopo un po’ ti abitui.
Ma non credo che l’amica geniale parlasse di quella.
Dunque, passo a quella americana, tre stagioni più una aggiunta, lei mi aveva già suggerito di non prenderle tutte insieme, metti che non ti piace, prova la prima, ma qui non è possibile, cioè, è possibile ma poi la prima stagione costa poco meno della metà del cofanetto completo.
Faccio un atto di fede e compro tutto. Arriva dopo tre giorni al mio solito garage dall’Inghilterra.

Quattro stagioni; quarantaquattro episodi; 1.981 minuti; trentatré ore e un quarto.
Un’altra recensione (le recensioni su Amazon si contano sulle dita di una mano, ma nemmeno) dice cominciate a vederla solo se avete tempo.
Ho tempo, è estate, io vedo le serie solo a Natale, a Pasqua e quando sono in vacanza, non potrei vederle in stagione, io le serie le devo vedere tutte insieme, non so nemmeno come siano trasmesse, forse con un episodio a settimana?
Non potrei sopportarlo, io devo averle tutte a disposizione: un mare di patatine fritte; una montagna di crema; una biblioteca ben fornita su un’isola deserta; una cantina fresca e stracolma di bottiglie.
Decidete voi a che cosa assomiglia un cofanetto con dentro una bella quantità di servizievoli dischetti.

Le serie sono una di quelle cose per cui è bello essere moderni.
Ricordo che ci arrivai trascinata da un programma alla radio in cui l’autore diceva che tutto è cominciato quando il cinema ha iniziato a ripetersi e a mancare di respiro, lui individuava il momento di rottura in non so più quale Uomo ragno, c’è stato chi ha raccolto la possibilità di narrare, ne sono nate opere che sono dei veri e propri affreschi, piene di dettagli, con protagonisti che subito ti entrano dentro e acquistano una vita autonoma, proprio come succede quando leggi un grande romanzo.
L’estate è la stagione giusta anche per le letture che lasciano il segno, leggere e vedere una serie sono atti analoghi, devi ricordarti dove sei arrivato e che cosa è successo, riprendere il filo del discorso, devi ricordarti chi era quello, se interrompi non ti ricordi più niente, se ti sbagli di episodio, mi è successo la serie scorsa, ti salta tutta la successione cronologica, ti trovi in un universo impazzito, ti sembra di essere stato ibernato e di esserti svegliato in un mondo irriconoscibile.
Brutta sensazione di disorientamento.

Come è segnato con il pennarello rosso sul Post-it che ho attaccato al lettore, sono arrivata solo al quarto episodio, una porzioncina di patatine fritte; un cucchiaio di crema; un libro sfogliato; una sola bottiglia aperta.
Però voglio cominciare a mettere in ordine le idee e, soprattutto, a mettervi al corrente.
Ecco dunque, qualche nota iniziale, di chi ha appena assaggiato la cena ma già ha capito che è gustosissima.

Come tutti sanno, è dal mattino che si vede il buon giorno.

La lingua. La mia edizione è in inglese con sottotitoli inglesi. Oddio, dire inglese è approssimativo. Parlano tutti un americano terribile, masticato, biascicato, sincopato, pieno di frasi idiomatiche e di acronimi, mi sono fermata più di una volta perché non capivo più che stava succedendo, è un poliziesco, quindi ci sono pure tutte le situazioni della polizia, e io che ne so, mica sono un’appassionata del genere. Prova ulteriore che non si può mai dire mi piace questo, lo vorrei così, questo e così come, poi incontri quello e ti piace ancora di più e ne vuoi uno che così non è per niente.
Insomma, se avventura deve essere, che sia avventura fino in fondo.
Al secondo episodio già seguivo meglio.
Alla fine della quarta stagione, come niente avrò pure preso l’accento.

La città. Seattle. Non ci sono mai stata e non credo di avere voglia di andarci. Piove sempre. Piove ininterrottamente, piove dacché è partito il primo episodio, piove e tutti fanno finta di niente, indossano abiti da pioggia, certe volte portano l’ombrello, più spesso si bagnano, mi sono messa a chiedermi come e quando asciugano il bucato, piove su tutto e tutto è piovosamente grigio.

Seattle

Ho preso il mio atlantino piccolo americano, che comunque mette l’Europa in prima pagina, e vorrei pure vedere, e ho cercato Seattle: sta in alto a sinistra, insomma, a nord-ovest, stato di Washington, che non è Washington D.C., lì ci sono stata, dove c’è la capitale e D.C. significa District of Columbia.
Questo è Washington quell’altro.
Seattle è la città di Kurt Cobain e del grunge, ogni volta che indosso uno dei miei blue jeans con le toppe oppure ancora con gli strappi, situazione che precede il rammendo, penso a tutti gli stracci che hanno indossato loro negli anni ’90 e mi sento molto nell’aria del tempo.
Seattle è circondata dall’acqua ed è piena di acqua, poi ti credo che è anche piena di foreste sempreverdi, è una città moderna, i cui fondatori evidentemente non hanno controllato bene il meteo prima di fondarla, ma qui credo che abbia il sopravvento la mia anima latina, quindi, fatti loro. Sulla mia postazione, la mia poltrona del mio soggiorno a Roma, Italia, non piove, pure se mi sento l’umido che mi entra nelle ossa, un po’ come quando vedo per la duecentesima volta il mio film prediletto, Blade Runner, dove, pure, piove sempre.
Sto cominciando a convincermi che i film in cui piove continuamente sono i film più belli.

La protagonista. Sarah Linden è un detective del Seattle Police Department, che si abbrevia in SPD. È una rossa con la coda di cavallo, sempre infagottata in abiti informi, con giacconi impermeabili per la pioggia.

Sarah Linden

Prometto, dopo aver visto lei, di non parlare mai più male delle divise delle nostre poliziotte e delle vigilesse, per non dire delle controllore del treno, tutti mestieri che non farei mai esattamente per via della goffaggine delle uniformi femminili. Le carabiniere nostre, invece, sono eleganti, una volta ne ho fermata una con un delizioso cappellino con la falde laterali rialzate e le ho chiesto chi aveva disegnato tutto quello che aveva addosso.
«Armani» mi ha risposto, contenta.
Ci vuole così poco a far felice una donna.
E dopo avervi dato un esempio di come uso io il genere delle professioni al femminile, poco e solo quando sono in vena di leggerezza, torniamo a Sarah Linden.
Che, nonostante l’informità dell’abbigliamento, è una che ha il cervello in gran forma: intelligente, straordinariamente intuitiva, capisce dalla bicicletta rosa che vede nella rimessa che Rosie è morta.
Lei ha la faccia di gomma.
È quasi sempre un po’ triste e la tristezza e gli altri sentimenti le si stampano tutti sul volto, che è dolente, preoccupato, coinvolto, non so come sia a stare continuamente alle prese con gli omicidi, poi, casomai, ti viene l’espressione che ha lei e non te la levi più di dosso.
Lei partecipa.
È un personaggio straordinario, se lei sta lì per tutte e quattro le stagioni, quarantaquattro episodi; 1.981 minuti; trentatré ore e un quarto, sarà difficile togliermela dall’anima.
A parte che già ci è entrata dentro e che mi sembra di conoscerla da sempre.
Lei ha un innamorato che dovrebbe sposare e con il quale si dovrebbe trasferire a Sonoma, al sole della California, questo veniamo a sapere all’inizio.
Al momento, ha già perso un certo numero di aerei. Ma, come ho detto, sono arrivata solo al quarto episodio. Come niente, non ha alcuna intenzione di convolare a nozze e preferisce fare la poliziotta.
Sotto la pioggia.
Altro suo dato caratteristico: mastica sempre. Comincia con la gomma americana e prosegue con tutta quella roba nei sacchetti che piace tanto dalle sue parti.
Ho provato un sentimento di fastidio all’inizio ma ora, proprio come con l’inglese, mi sto abituando.

Stephen Holder

Il coprotagonista. Stephen Holder. Al momento, ha un ruolo di primo piano. Alto, allampanato, con una specie di barba, viene dalla Narcotici ed è stato assegnato alla Squadra Omicidi. Uno lo guarda e prova la medesima sensazione di quando stai al Policlinico e non distingui gli infermieri dai tossici.

Quando si dice, infiltrarsi.
Ha anche metodi poco ortodossi.
La relazione fra i due sta crescendo, lei è comunque accogliente, è bene che una donna sia tale e lei lo è pienamente, se lo è con gli altri, lo è pure con lui.
Escludo che lui diventi il mio nuovo idolo maschile.
Però, come detto, non si sa mai, una dice mi piacciono gli uomini così e così e poi perde la testa per uno che è tutt’altro.

Gli adolescenti. Una galassia. Io frequento pochissimi bambini e nessun adolescente. Frequento, per forza di cose, una quantità industriale di giovanissimi, che però sono maggiorenni e hanno più o meno chiuso con gli anni difficili.
Si fa per dire.
In ogni caso sono un po’ più simpatici di questi: chiusi, refrattari a ogni forma di comunicazione con gli adulti, pronti a fare ogni tipo di esperienza, in rotta di collisione con la vita e con il mondo.
E come potrebbe essere diversamente.

Anche la detective ha un delizioso figlioletto: sempre arrabbiato, sempre odioso, sempre contro.
Bellissime incursioni nell’abbigliamento, nella high school, nelle feste, nello skate. Una volta ho conosciuto un ragazzo, che lavorava in una lavanderia dalle mie parti, che andava con la tavola al Foro Italico e mi raccontava il rumore delle ruote sui mosaici la notte.
Questo ricordo mi è venuto in mente adesso.
Altra prova che la serie funziona.
Come sappiamo: capisci che ti piace una persona se hai voglia di rivederla. Capisci che un film è buono se ti trascina dentro lo schermo, qualunque dimensione esso abbia, e se ti comincia ad aprire, una dopo l’altra, tutte le finestre che hai nella testa e nella memoria.

Gli altri. Il politico con il naso all’insù; i genitori; i colleghi; la gente. Una città, abbiamo detto, moderna, quindi piena di rapporti e di intrecci, con infinite possibilità di relazioni.
È un po’ come quando conosci un gruppo di persone e ti sembrano tutte interessanti.
Nella vita succede così di rado, l’ultimo mio ricordo, in questo senso, risale a quando sono entrata in Accademia, tutto mi sembrava geniale, trovavo i colleghi, senza eccezione, perdutamente seducenti, non vedevo l’ora che venissero i giorni in cui avevo lezione.
E quell’impressione è anche durata a lungo, l’Accademia era piccola e tutto sembrava pieno di possibilità e di risorse.
Eravamo tutti giovani, forse era questo.
C’è un artista, Robert Fillou, che dice che «l’arte è ciò che rende la vita più interessante dell’arte».
Sono d’accordo.
Ma non direi che il cinema è ciò che rende la vita più interessante del cinema, anzi, spesso misuri la differenza fra quelle vite là, quella gente là e queste vite qua, questa gente qua e vorresti stare più là che qua.

(Poi, casomai, però, piove).

Comunque, per il momento e per un bel pezzo di estate, sono alle prese con questo caso poliziesco, ovvero sto un po’ anch’io a Seattle, a indagare sull’assassinio di Rosie Larsen con la poliziotta rossa con la coda di cavallo, sensibile e piena di sentimenti.

Insomma, se mi cercate, sto vedendo una serie.