Ma il vino…è un milieu (un medium) molto complesso del quale possiamo dire che l’essenziale sfugge alle nostre investigazioni
(Jules Chauvet, vinificatore, chimico, negoziante di vini, degustatore brillante. Il generale de Gaulle è stato un suo grande estimatore)
Giorni fa incontro un collega nel mio supermercato (sono una donna moderna, quindi, solitaria, urban e territoriale. Dunque, qualunque invasione del mio supermercato mi mette in allarme)
Ha nel cestino una bottiglia di vino bianco e una birra.
Ci mettiamo a parlare.
Io voglio parlare di vino.
Lui vuole parlare di Accademia.
Dice che l’Accademia è molto migliorata negli ultimi tempi.
Dico che lo so perché ci sono già passata anni fa e vedo la differenza.
Dico che i nostri studenti non sanno niente.
Ogni volta che dico che i nostri studenti non sanno niente, il collega di turno conferma entusiasticamente.
I nostri studenti non sanno niente né di arte né di vino.
I nostri studenti sono lo specchio perfetto dell’Italia dei nostri giorni.
E allora proviamo a fare qualcosa, con il vino e con l’arte.
Per gli studenti e per l’Italia.
Da un pezzo noto sempre più analogie fra il mondo dell’arte e quello del vino. Esse sono affascinanti, inquietanti, agghiaccianti.
Io ho con il vino un rapporto letterario, ma ho un rapporto letterario un po’ con tutta l’esistenza, quindi, niente di cui stupirsi.
Per esempio.
Se leggo nell’autobiografia di Charlotte Perriand, fra i grandi creatori del secolo XX, associato di Le Corbusier e persona con un forte senso della natura e del corpo, che lei beve Sancerre, io devo procurarmene una bottiglia.
Se arrivo alla fine delle 1113 pagine della traduzione italiana di 1Q84 di Murakami Haruki e i due protagonisti, Tengo e Aomame, si sono finalmente ritrovati dopo anni di inseguimento e prendono «una camera in un hotel situato in un grattacielo, ad Akasaka», fanno l’amore in una scrittura con accenti di delicata eppure violenta sensualità e poi, verso l’alba, si avvolgono negli accappatoi dell’hotel e stanno in piedi davanti alla grande vetrata «alzando il bicchiere di vino rosso che avevano ordinato con il servizio in camera», la sera in cui ho terminato il libro io devo bere vino rosso.
Sì, ma quale?
Mi soccorre Enki Bilal, che nel suo film Immortal ad Vitam, tratto da un suo fumetto, offre ai suoi protagonisti del Bordeaux.
Tutti sanno che Don Giovanni, solo a tavola (lo dico a tutti coloro che non amano mangiare in compagnia di se stessi: nobili e avventurieri condividono esclusivamente le cene di gala), con Leporello che lo serve, beve Marzemino, che lui definisce «eccellente».
E c’è sempre Hemingway, una miniera, che, quando sta a Parigi, nel buon locale che conosce a Place St.-Michel attacca con un café au lait; continua con più di un rum St. James; ordina mezza caraffa di vino bianco secco con una dozzina di portugaises, che sono delle ostriche e poi ti credo che perde il sentimento di vuoto e comincia a «essere felice e a fare progetti» (A Moveable Feast).
E meno male che sta sempre senza soldi.
Un altro paio di suoi eroi, una dei quali è «the flamboyant Lady Brett Ashley» mentre l’altro è colui che racconta, arrivano a Madrid, al Palace Hotel e vanno al bar per un cocktail.
«Barman e fantini sono le uniche persone che sono sempre gentili».
«Non importa quanto è volgare l’albergo, il bar è sempre bello».
Toccano i loro bicchieri. Chiedono un’oliva nel Martini.
Ne ordinano ancora due, di Martini, non di olive.
Poi decidono di andare a pranzo da Botin, uno dei migliori ristoranti al mondo, Brett mangia poco, lui mangia molto e bevono tre bottiglie di Rioja Alta.
«Brett fumava.
“Ti piace mangiare, vero?” disse lei.
“Sì,” Dissi io. “Ci sono un sacco di cose che mi piace fare.”» (The Sun Also Rises).
Ditemi voi come si fa a non avere un rapporto letterario con l’alcol.
Già in passato ho provato a indagare che cosa c’era di speciale nel vino e trovate le mie considerazioni qui.
E avevo già citato l’opera più interessante dedicata da un artista all’argomento. La riprendo rapidamente, anche perché l’arte è sempre inesauribile (esattamente come il vino).
Velázquez dipinge a poco meno di trent’anni il suo Los borrachos (Gli ubriaconi), opera conosciuta anche con il titolo Il trionfo di Bacco, svolta radicale nella sua carriera sia per la novità della messa in scena all’aria aperta, sia per l’approccio affettivamente caldo, che poi avrebbe dato ricchissimi frutti, a un’umanità brutta, sdentata, stolida, stanca, eroica in questa sua mancanza di eroismo.
E pure Bacco è divino a modo suo, praticamente una canaglia, con i pampini in testa e la botte come cattedra.
E vi ricordo che Manet cita questo dipinto nel suo Ritratto di Zola, guardate che cosa compare in alto a destra.
E abbiamo già stabilito un primo aggancio, un omaggio di un pittore a quello che lui considerava «il pittore dei pittori». (Talvolta l’arte eleva se stessa all’ennesima potenza. E fa benissimo).
Mi sposto cronologicamente e vi propongo una tappa del nostro filo rosso di immagini di oggi: l’etichetta di uno degli artisti della Wiener Werkstätte, il laboratorio della Vienna degli inizi del secolo scorso che tutto ha toccato e si è occupato di tutto.
Sono scomparsi gli ubriaconi ed è rimasto solo Bacco. Pure ragazzino.
Ma l’atmosfera è quella, l’andamento orizzontale, il senso di trionfo, le botti che hanno sostituito gli esseri umani.
La divina creatura ha fra le braccia un calice all’altezza delle sue intenzioni: posso sbagliarmi, ma sembra proprio un Rohmer, bicchiere dedicato ai vini d’Alsazia, che disegnò Matisse e di cui ho anch’io un esemplare nella mia piccola raccolta di vetri.
Quante suggestioni, in un’etichetta di vino.
E adesso disponete il vostro animo a uno stato di stupore e di divertimento.
Voglio presentarvi Nicolas Boulard, artista, champenois, ovvero nato nello Champagne, per la precisione a Reims, nel 1976, figlio di viticoltori.
Lo seguo da quando sono venuta al corrente di una sua opera giocosa: nel 2008 lui invita cinque critici d’arte (francesi, lo sottolineo) a un esercizio di degustazione alla cieca di una parte della sua produzione.
Di che cosa parliamo, di vini o di lavori?
Non so rispondere a questa domanda.
Ma voi seguitemi.
Ciascuna delle otto bottiglie proposte ha un suo contenuto singolare: vini combinati a caso; seguendo un criterio folle, messo in evidenza anche dall’etichetta sulla quale è disegnata una scacchiera con segnalate le mosse possibili dell’alfiere (che in francese è le fou, cioè il matto); un ulteriore vino pazzo prodotto con l’Othello, un vitigno proibito per l’alto contenuto di metanolo; una vendemmia tardiva di Pinot Meunier, una delle tre varietà di uva utilizzate nella produzione dello Champagne, trattata in rigorosa opposizione con i processi tradizionali della vinificazione del medesimo; un liquido composto di acqua, zucchero, lieviti chimici e attivatori di fermentazione, con l’aggiunta di un po’ di alcol.
Secondo me la bottiglia più simpatica era una magnum (un litro e mezzo, c’è di che divertirsi) di Romanée-Conti del 1946, presentata con tanto di etichetta.
Essendo il Romanée-Conti uno dei vini più ambiti al mondo, con prezzi che arrivano a migliaia di euro, il primo commento del coraggioso drappello è «Troppo bello per essere vero».
Infatti.
Niente naso; sa di acqua; il colore è quello del sangue secco; sa di terra; sembra fango.
Infatti, dicevo. Nel 1945 la tenuta è stata aggredita dalla filossera, le vigne sono state strappate e ripiantate nel 1947.
L’annata 1946 se l’è inventata l’artista, mettendo del colorante nell’acqua.
Questo tanto per presentare il personaggio.
E inoltre. Tutto ciò sarebbe stato praticabile con dei critici d’arte italiani? Come se la cavano, i nostri, alle prese con la bottiglia?
Saprete che a Bordeaux è stata inaugurata la Cité du Vin, uno spazio espositivo tutto dedicato al vino.
L’architettura richiama i nodi della vite, il movimento della bevanda nel calice agitato, il risucchio della Garonne, che è il fiume che scorre da quelle parti. Più di 13.350 mq ripartiti su 10 livelli che salgono fino a 55 m.
Praticamente, un incubo.
Un’ossessione, una Disneyland dell’uva e delle sue conseguenze.
Sono stata a Bordeaux anni fa, si mangiava e si beveva benissimo, i musei erano poco frequentati, la città aveva un’aria aristocratica, laterale, ricordo che mi dispiacque molto ripartire.
Forse sono vieux jeu, anzi, certamente, ma per un po’ posso fare a meno di tornarci.
A parte i miei gusti personali, veniamo di nuovo a Nicolas Boulard e vediamo che cosa ha combinato, lui, il solo artista al mondo che lavora a stretto contatto con il mondo del vino, quando è stato invitato a «mettersi al diapason» con tanto ingombrante avvenimento.
Ed ecco la sua mostra monografica.
Il titolo è tutto un programma: Critique du raisin pur, che significa, certamente, Critica dell’uva pura, ma che suona un po’ come Critique de la raison pure, che è quell’opera di Kant che da noi si chiama Critica della ragion pura, una cosa rigorosa.
E l’artista, contro il rigore, si scatena.
Si autorizza una libertà di sperimentazione totale: intrecciando arte e vino, mescolando i modi di produzione, l’ispirazione e i riferimenti, percorrendo la storia dell’arte e quella della vinificazione, sabotando dall’interno la rigidezza dell’assemblage, compiendo infrazioni deliranti.
Propone mélange di grands crus per arrivare al top dei top dei grands crus; produce un «vero, grande vino di Reims» combinando vini comprati al supermercato della sua città; mette il naso nel processo viticolo bordolese; preoccupa con la sua disinvoltura istituzioni, produttori e fornitori, deride, ironizza, distrugge, costruisce.
Fa quello che fa ai nostri tempi un artista.
E lo fa con una purezza grafica che salta agli occhi: installazioni ordinate, capacità di controllo delle sfumature di colore (chi, più di uno che ha studiato da pittore), propone una lettura limpida, confortevole, con accenti didattici.
Identità, territorio, geografia, norme: ditemi voi se stiamo parlando di vino o di arte, ditemi se le convenzioni del passato e le regole in vigore, spesso considerate sacre, le une e le altre, non sono comuni al mondo del vino e a quello dell’arte.
Così come a me capita di frequente di non capire quello che scrive il sommelier.
E di non capire quello che scrive il critico d’arte.
Passi pure la prima situazione, ma con la seconda, come la mettiamo?
Non è che, oltre a qualche lite giovanile con la grammatica, qui e là c’è il vezzo (il vizio) di un linguaggio per iniziati che bisogna poi vedere se gli iniziati capiscono.
La chiarezza della scrittura è certamente un dono, però si lavora e, con un po’ di fatica, ci si arriva.
Con i miei colleghi, artisti e teorici, io parlo di arte.
Poi mi rendo conto che il discorso gira su se stesso, non esce all’esterno, che una persona può passare dieci volte davanti all’Ara Pacis senza che le venga in mente di entrare a vederla, che a Roma vive gente che non ha mai messo piede a piazza di Spagna, lasciandola nelle mani dei turisti, che la consumano come se fosse merce.
Nello stesso modo vedo continuamente uomini avvertiti che sanno più o meno come e quando cedere il passo (comportamento al quale io sono molto attenta) ma che al ristorante, davanti alla carta dei vini, annaspano.
Che non hanno mai visto un Caravaggio appeso in una chiesa o in un museo.
Che pensano che Michelangelo sia roba estranea; che Carpaccio si mangi; che Bellini sia una cosetta divertente da mandare giù preferibilmente quando fa caldo.
Sono tutti curiosi, ma non di sapere, per esempio, che cosa c’è dietro i due nomi lagunari che vi ho appena fatto. E dietro c’è il Cipriani senior, fondatore dell’Harry’s Bar di Venezia, che ha voluto rendere omaggio a due dei suoi artisti con una pietanza cruda e un facile cocktail.
E l’Harry’s Bar è stato molto amato da Hemingway.
E, per oggi, visto che mi è venuto in mano da solo uno dei bandoli della matassa, perché avevo esordito citando il grande scrittore (e bevitore) americano, chiudo qui.
Non senza aver aggiunto che, professionalmente, io mi interrogo sempre sulla chiarezza dei miei discorsi, che predico incessantemente la necessità del rapporto fisico, intrattenuto, approfondito, coltivato, con l’opera d’arte, così come sollecito i miei studenti a degustare il nostro vino, a guardare come è fatta una bottiglia, a imparare ad aprirla, soprattutto i maschi, visto che alle ragazze la spigliatezza nel campo piace moltissimo.
Come piace molto anche a me.
E mi mette a disagio l’incultura del vino e dell’arte.
Ho esordito con un abito geniale, tutto ornato da grappoli d’uva e indossato da una squisita signora con in mano la sua coppa.
Chissà che cosa contiene, proviamo a indovinare.
Chiudo con un’altra etichetta di vino, ancora della Wiener Werkstätte.
L’ho scelta perché la trovo bellissima.
C’è un elegante e grafico Mercurio, che indica la marca, ma che è anche il dio che cuce Dioniso nella coscia del padre Zeus, visto che la madre Semele era morta, incenerita dallo splendore dell’amante, e che, alla sua nascita, affida il singolare bambino a ninfe, satiri, menadi e a Sileno, perché tutti ne abbiano cura.
Una compagnia ottima, per un infante, tutti ubriachi tutto il tempo.
E ci sono due eleganti grappoli d’uva, completi di pampini, stilizzati ma tutti turgidi.
Magnifici i caratteri grafici, a Vienna, in quel tempo, creavano queste meraviglie.
Ma ho scelto questa etichetta soprattutto perché è stata disegnata per un vino italiano, nero, di prima qualità e nostro.
Perché l’Italia è la terra del vino, proprio come la Francia, solo che Oltralpe c’è una cultura diffusa che è ben altra, te ne accorgi appena sbarchi dall’aereo, te ne accorgi nel bistrot all’angolo, dove il patron ti tira fuori da sotto il banco la bottiglia giusta e te ne accorgi in albergo, dove in estate trovi facilmente a tua disposizione un secchiello che trasuda ghiaccio con un profumato rosé del quale puoi servirti quando rientri.
Per non parlare dell’attenzione nei confronti degli artisti che si respira a casa loro, dappertutto.
Insomma, abbiamo a portata di mano un buon esempio.
Seguiamolo.
Anche dalle nostre parti, non possiamo fare a meno del vino.
Non possiamo fare a meno dell’arte.