Comincio con la storia di un raggiro messo in atto ai miei danni, per cui un mio compagno del corso di tedesco, venuto a conoscenza della mia passione per Rimbaud, buttò lì che lui era stato a Charleville sulla tomba del poeta e che sulla lapide c’era scritto Ne criez pas pour moi, Non gridate per me.
Solo dopo anni avrei visto la foto della sepoltura, scoprendo che in realtà l’implorazione era Priez pour lui, Pregate per lui.
La favoletta, comunque, era ben trovata, come sappiamo, i secondi (e anche i terzi e i quarti) fini degli uomini accendono sempre la loro fantasia, anche tombale, anche letteraria.
Quanta vita c’è nella morte?
Tantissima, essendo la morte l’accadimento chiave della vita medesima: se non ci fosse vita, non ci sarebbe morte.
E, lo sappiamo, Eros e Thanatos sono legati indissolubilmente, al punto che mai come quando noi siamo davanti alla morte abbiamo voglia di vita.
Lo sa bene la Matrona di Efeso, anche lei protagonista di un racconto, stavolta fatto da uno serio, Petronio, nel suo Satyricon.
Il marito muore, lei si strazia e tutti dicono ma che sposa meravigliosa, si vuole seppellire con lui.
Lei piange e non mangia e i lamenti che escono dalla tomba incuriosiscono un soldato che era di guardia ad alcuni cadaveri di ladri crocefissi.
Lui comincia con l’offrire cibo alla bella donna, poi le offre anche altro e trascorre con lei in quel luogo singolare giorni d’amore.
Quando finalmente si accorge che i parenti di uno dei ladri hanno portato via il corpo, si dispera al pensiero della punizione e vuole suicidarsi.
Lei, però, rimessa al mondo da tutte quelle attenzioni, suggerisce di crocifiggere il cadavere del marito.
Tanto, ormai.
Certo, non vuole perdere anche l’altro dopo aver perso l’uno.
Noi viviamo in «un mondo sfigurato, rovinato, mercantile», in cui, ci dicono, tutto è sostituibile.
Poi, di fronte alla morte, ci accorgiamo che le cose non stanno così e che, davanti alla perdita, la locuzione «elaborare il lutto» è priva di senso.
Forse si possono elaborare un’idea, un progetto, una tesi, forse pure un contratto d’appalto o un programma di sviluppo economico, ma come si possa elaborare il distacco e lo strazio resta per noi incomprensibile, tanto è attivo il concetto, quanto è passivo il nostro stato.
I riti aiutano, ma aiuta soprattutto il tempo, la distanza che esso dà alle cose, pensiamo solo a tutte le regole sociali che governano il lutto, in ogni civiltà e in ogni cultura, tutte legate al trascorrere dei giorni.
Per esempio, in Francia, alla metà dell’Ottocento, quando ogni atto sociale è codificato, le norme imposte alla vedova per diciotto mesi sono rigorose:
1. Primi sei mesi: grand deuil, niente attività mondane, la vedova deve rimanere reclusa. Indossa solo lainage mats, la sua biancheria è nera, i bijoux sono in jais, tutti i suoi accessori sono in nero
2. Demi deuil, sei mesi successivi: il lutto si ammorbidisce: lei può tornare ad assistere a qualche mondanità, anche se deve ritirarsi rapidamente. Può introdurre tessuti più brillanti, satin o moire e, eventualmente, alla fine di questo periodo, può rialzare l’abbigliamento con qualche tocco di bianco e di grigio
3. Petit deuil: si riprendono le attività mondane: la vedova si veste di gris, parme e violet, può tornare a ricevere, frequentare l’opera e gli spettacoli
Non è proibito risposarsi: in questo caso l’abito non sarà bianco ma nero.
La mostra del 2015 al MET, Death Becomes Her: A Century of Mourning Attire, analizza le implicazioni estetiche e culturali degli abiti da lutto fra il diciannovesimo secolo e i primi anni del ventesimo, mettendo in evidenza l’impatto dell’influsso dell’alta moda e dei dettami sartoriali.
Guardate la bellezza di questi vestiti, fanno quasi venire voglia di indossarli.
Non è del tutto d’accordo la più grande Scarlett che abbia mai poggiato i suoi piedini sulla faccia della terra.
Rimasta vedova senza troppe conseguenze sul piano dei sentimenti, considera il lutto un impedimento per la vita sociale e per i balli. Fino a un certo punto, però, visto che la troviamo danzante in gramaglie con tanto di velo e intatte capacità seduttive.
Sorride Michele De Lucchi nel suo delizioso dizionario Gli attributi dell’architetto, dove, alla voce Vedovile, leggiamo: «atteggiamento di donna sposata che si porta avanti con il lavoro».
Non sorridono ma fanno sorridere noi i due protagonisti di un fatto autentico raccontato nella mia rivista di filosofia: una coppia ha posato sul caminetto il vaso con le ceneri di un congiunto, mettiamo, la madre di lui. Stanno fuori qualche giorno e, rientrando, trovano al suo posto un biglietto della domestica che dice «Ho rotto il vaso che era sul camino e ho aspirato la polvere che c’era dentro».
Costernati, sgomenti, in preda al panico, seppelliscono l’aspirapolvere nel giardino.
(Si sarebbero potuti limitare a seppellire il sacchetto dell’elettrodomestico, ma deve essere mancato loro il cuore e hanno onorato la defunta con un’urna più grande e, in più, tecnologica).
E queste abitudini dei vivi, come l’avere una casa con un camino, sono facilmente trasferite sui morti.
Come se ne avessero bisogno.
Leggiamo di parenti che mettono uno smartphone acceso nella tasca del defunto nel caso volesse mandare un messaggio da là, dove si trova; di cuffiette con la musica prediletta messe dentro orecchie che, ci viene in mente, non possono più sentire; di pagine Facebook alimentate da viventi, al punto che l’azienda si è inventata gli Account commemorativi, che recano la dicitura In memoria di accanto al nome; di giocatori on line di videogiochi che hanno creato cimiteri virtuali dove virtualmente seppelliscono quello fra loro che muore.
Non ci si separa facilmente dai morti.
Ho raccontato qui la bellezza romantica del Cimitero Acattolico di Roma, il mio luogo preferito in città (sono una che va regolarmente per camposanti, quindi so di che parlo).
A fronte di tanta, misurata e accogliente atmosfera, leggo su Sacro romano Gra, il libro di Nicolò Bassetti e Sapo Matteucci dal quale è stato tratto il film di Gianfranco Rosi Leone d’Oro alla Mostra di Venezia nel 2013, che, oltre al Laurentino dei vivi, c’è anche un Laurentino dei morti.
In esso si celebra la pop morte.
Il direttore ha brevettato una cornice ad alimentazione solare che manda in loop su uno schermo, da mettere sulle lapidi, foto e messaggi MMS aggiornabili.
«È un modo per dialogare e tenere compagnia all’estinto».
Praticamente l’interpretazione digitale di quei misteriosi e affascinanti ritratti del Fayum di epoca imperiale romana definiti da Malraux «oblò sull’aldilà».
Con qualche differenza di gusto, ben inteso.
Al Laurentino ai bambini sono concessi pupazzetti Playmobil e Lego e scatole del Monopoli; agli adulti, calze a rete per la signora che amava danzare, lo scolapasta per il «Re dell’amatriciana» e berretti da comandante all’appassionato di nodi marinari; ai tifosi, immancabili, i segni del loro credo, sciarpe della Roma e della Lazio e frasi da striscione.
L’orrore.
Di fronte all’assenza di immagini del Cimitero Acattolico, di umore protestante, qui viene imbastita di continuo una strana opera d’arte riferita alla vita oltre la morte, con tutti che sono diversi uno dall’altro e vogliono che si sappia, un po’ come nel mio condominio, in cui la mia richiesta di avere zerbini tutti uguali, rettangolari e in fibra vegetale, è stata considerata offensiva da coloro che volevano esprimere la loro creatività con il praticello di plastica, l’orsa con gli orsacchiotti, tutti abbracciati e sagomati, la scritta WELCOME che chissà se corrisponde all’accoglienza.
Nessun problema, se la creatività la esprimi a casa tua.
Il problema sta nello spazio comune. Concetto al quale probabilmente afferisce anche il cimitero.
Una volta, a Berlino, sono andata a trovare Marlene sulla sua tomba, nel camposanto di Friedenau, il medesimo nel quale sono sepolti i fratelli Grimm.
Il luogo era magnifico, raccolto, sereno e la sepoltura della diva riassumeva la sua carriera.
Sulla lapide, la scritta Io sto qui, sul confine del mio giorno.
Nel cimitero, erano numerose le sepolture dei bambini. Non si può pensare niente di più tragico della morte giovane.
C’erano delle girandole di carta, pochi giocattoli, c’era sobrietà e memoria.
Ma è passato del tempo e chissà che nella rigorosa Germania non si sia diffuso il morbo appestante della tomba il cui occupante è costretto da chi lo rimpiange a continuare a comprare il Parco della Vittoria, il cui solo terreno costava 5.000 lire.
La mia rivista di filosofia, da un dossier della quale dedicato al lutto ho attinto un po’ di materiale per questo articolo, fa commentare a un filosofo alcuni racconti di persone in sofferenza per una perdita. Nel novero delle morti inaccettabili ci sono i nati morti; i figli; i suicidi.
Tutti dicono di aver trovato conforto nello scorrere del tempo, nella condivisione dell’esperienza, alcuni parlano del senso di colpa che si prova essendo ancora in vita, altro luogo letterario importante, pensiamo solo ai racconti di coloro che sono scampati dai campi di concentramento.
Il momento più alto di tutta la complessa riflessione è quello in cui si dice che il tempo del lutto è mal visto in una società consumistica, nella quale noi dobbiamo consumare sempre più oggetti e piaceri.
Eppure quel tempo è importante, perché ci mette in un registro metafisico che, paradossalmente, favorisce il pensiero e la vita.
Sono, quelli, momenti rari, nei quali c’è una connessione fruttuosa fra l’emozione e il pensiero: «Qualcuno che nel medesimo tempo è commosso e che pensa è più libero della media. Il tempo del lutto è un tempo sovversivo».
E questo concetto è bellissimo e consolatorio, ci riempie di luce quando siamo in un tunnel scuro, ci dice che tutto questo dolore ha un senso.
Sono una capace di buttare oggetti, liquidare sentimenti e fare pelle nuova. A un certo momento ho imparato a staccarmi e per un po’ di tempo ho apprezzato che di un corpo, oltre la morte, potesse non rimanere niente.
Ma sono una foscoliana fino all’osso, per cui ho dato a questo articolo come titolo le parole iniziali del carme Dei Sepolcri, quando il poeta si chiede retoricamente se il sonno della morte è meno duro sotto gli alberi che tradizionalmente da noi sono dedicati ai defunti e nelle urne «confortate di pianto».
E oggi, con Foscolo, mi schiero dalla parte della tomba.
Con un’indicazione di stile finale.
Vi presento due opere di due grandissimi architetti italiani del ‘900, entrambi molto vicini al mio cuore.
La prima fu progettata da Gio Ponti nel Cimitero Monumentale di Milano per la sepoltura della Famiglia Borletti.
Si tratta di una struttura delicata, moderna, cubica, asciutta, con le fasce di marmo del rivestimento le cui proporzioni e il cui taglio sono stati calcolati con grande finezza.
Le sculture, perfettamente integrate, sono di Libero Andreotti.
Molto belli sono anche i dettagli e gli elementi decorativi, la cornice, la croce, con il risultato complessivo di un’opera altissima e lirica ma sobria, come lirica e sobria è tutta la produzione del grande architetto milanese.
Vicino ad Asolo, poi, nel piccolo paese che si chiama Altivole, Carlo Scarpa, altro Maestro, firma nel 1969 la Tomba Brion, voluta da Onorina Brion Tommasi per il marito Giuseppe, fondatore e proprietario della Brionvega.
Si tratta di un complesso funebre strutturato a L ribaltata e composto dai propilei, da un arcosolio, da una cappella e da un «padiglione della meditazione», che è posto su uno specchio d’acqua.
Ve lo mostro nell’interpretazione di Guido Guidi, fotografo di sensibilità rara che ha dedicato al tumulo 118 scatti, realizzati in dieci anni, in ogni stagione e momento della giornata.
Un’opera di meditazione, alla profondità della quale si aggiunge per noi anche il pensiero della presenza dei resti mortali di Carlo Scarpa, deceduto nel 1978 in seguito a una caduta dalle scale a Sendai, in Giappone, e riportato nella sua terra, nel luogo da lui indicato nel suo testamento.
Così, come Foscolo ci insegna, «Sol chi non lascia eredità d’affetti / Poca gioia ha dell’urna».
E noi sappiamo che gli affetti sono cugini carnali dei sentimenti e noi di sentimenti siamo ricolmi.
Dunque, abbiamo fin da ora la nostra consolazione e guardiamo alla morte, qualunque sia il nostro pensiero al riguardo, almeno tenendoci compagnia uno con l’altro e insieme ai nostri artisti.
Morire si deve.
Ma lo si può fare in tanti modi e in tanti modi possiamo scegliere il luogo del nostro sonno.
Pensiamoci, finché siamo in tempo.