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Max Klinger, Un guanto: Amore, 1881
Lo dico sempre, che l’arte ci tende uno specchio nel quale guardarci.
(Forse per questo certe volte ci disturba tanto).
Ma talvolta la contemplazione di noi è una consolazione, dunque: eccoci.
Moderni, feticisti, più capaci di concentrarci su un oggetto che su una persona, vittime dei nostri sogni e dei nostri incubi.
Quando Max Klinger, tedesco di Lipsia, si trova a raccogliere un guanto perduto da una sconosciuta su una pista di pattinaggio di Berlino, ha ventun anni.
L’ossessione comincia e poco dopo, siamo nel 1878, espone un’affascinante serie di disegni nei quali racconta il fatto.
Ma procediamo con ordine e vediamo che cosa sono, nella sostanza, i guanti.
Certo, sono un accessorio, tale e quale a calze, scarpe, cappelli.
Ma. Anche ammettendo che qualche accessorio sia innocente, certo i guanti non lo sono affatto.
Le calze si possono scambiare, la destra con la sinistra. Con i guanti, non si può fare (a meno di non avere una di quelle scatole di guanti ambidestri, che sono pensati per proteggere le mani durante circostanze particolari. Essi, al momento, non ci interessano).
In questo senso, la somiglianza fra guanti e scarpe è messa in evidenza dalla lingua tedesca, che chiama i primi Handschuhe = scarpe per le mani.
I guanti si infilano e anche questo verbo non è per niente innocente.
Voi considerate che nella Cenerentola di Rossini la scarpetta è sostituita da uno smaniglio, cioè da un braccialetto, che si infila anch’esso.
E fin qui ci siamo.
Le donne da un pezzo indossano guanti per proteggersi le mani.
Gli uomini li usano, invece, per fare la guerra, per lanciarsi una sfida, per avvelenare qualcuno. Da qui l’obbligo riservato ai maschi di togliersi il guanto quando si saluta qualcuno. Evidentemente gli uomini sono considerati più pericolosi delle donne, almeno finché siamo allo stadio iniziale della conoscenza.
«La signora non si preoccupi di sfilarsi il guanto prima di stendere la mano ad un conoscente che incontra per strada. Quell’indugio toglie all’atto ogni spontaneità. Soffra che lo faccia l’uomo, semmai; gli uomini adoperano i guanti proprio nelle circostanze contaminanti…I loro guanti sono di buona misura, si sfilano facilmente. I guanti femminili invece sono attillati, per sfilarli ce ne vuole, la signora si affretta, impercettibilmente si contorce, sul viso le si disegna l’ombra di uno sforzo…quello che fa per liberarsi da una più intima gaine».
E già siamo all’intimo.
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Marlene e i suoi guanti
La Dietrich, come la chiama la figlia Maria, alla quale toccò in sorte di nascere da una creatura superiore, non comprava gli abiti per portarli nella vita, li comprava come costumi di scena. E le servivano gli accessori.
Dunque arriva nel suo albergo di Parigi «l’artista guantaio». Ha con sé valigie piene di pelli sottilissime, sulle quali si mette all’opera, appuntandole con spilli quasi invisibili fino a quando, annota Maria, «non ebbi l’impressione che sulle sue mani fosse stato versato del miele colorato».
Ma la diva non è soddisfatta e chiede al guantaio di andare a casa e di tornare il giorno dopo con «quella polvere bianca che usano gli scultori e i medici». Farà un calco delle sue mani e potrà appuntare su di esso le sue pelli, fino a ottenere il risultato giusto.
Quando i guanti furono pronti, ci vollero venti minuti per indossarli. Modellati su mani rigide, non contemplavano alcun movimento.
A Marlene viene da ridere. E quando ride di gusto, deve andare di corsa in bagno a fare la pipì. Dunque la figlia viene invitata a sbottonarle i pantaloni perché i guanti troppo stretti le impediscono di farlo da sola.
Poi si cambia le mutandine e impacchetta «le cinquanta paia di guanti nella carta velina nera, per quelli neri, bianca, per quelli bianchi, beige, perla, grigi e nocciola».
Cinquanta paia di guanti: visto che stava partendo per Hollywood, certo non viaggiò con bagaglio leggero.
Bei tempi, quelli in cui le donne potevano portarsi dietro l’indispensabile di cui avevano bisogno.
Madame Bovary si è sposata, si annoia e ha capito di aver sbagliato tutto. Ma verso la fine di settembre succede qualcosa di straordinario: lei e il marito vengono invitati a un ballo al castello.
La sua vita è fredda «come una soffitta il cui lucernario è al nord e la noia, ragno silenzioso, filava la sua tela nell’ombra in tutti gli angoli del suo cuore».
(Il destino della povera Emma non finisce mai di intristirmi).
La cena viene servita alle sette, lei si sente subito avvolta da un’aria calda nella quale si mescolano il profumo dei fiori e della bella biancheria con l’odore delle carni.
«Madame Bovary notò che molte dame non avevano messo i loro guanti nel loro bicchiere».
Sì, perché, all’epoca, le donne, oltre a trovarsi chiuse in matrimoni con orizzonti più limitati di quelli di un convento, non potevano nemmeno bere, o mangiare, senza rischiare di spoetizzarsi.
«Se una giovane e bella donna si mette a tavola, è per presiedere al pasto», mica per assumere cibo o bere vino. Infatti, nel bicchiere, ella ci mette i guanti, a segnalare la sua immaterialità.
(Per il cibo, pure pure. Però, per il vino, questi con me sarebbero cascati proprio male).
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Jean-Auguste-Dominique Ingres, Mademoiselle Rivière, 1806
Una volta casomai mettiamo insieme un po’ di cose d’arte con dentro i guanti. Vi anticipo, proprio per darvi il gusto dell’attesa, un dipinto che in questa storia ci starebbero benissimo,
il molto raffaellesco ritratto che Ingres, gigante del Neoclassicismo, ha fatto di Mademoiselle Rivière: «Importanza del braccio sinistro sottolineata dal guanto giallo. È simile al davanzale dei ritratti veneziani. Il braccio ci permette la concentrazione focale della visione. È perfino ingrandito rispetto all’altro».
Se vi volete commuovere, vi dico che ho copiato per voi i miei appunti della lezione nella quale Giulio Carlo Argan ha parlato del dipinto.
Ho conservato il quaderno con gli anelli come una reliquia e attingo spesso a quello che ho scritto a diciannove anni, innamorata della storia dell’arte e decisa a praticarla.
L’alternativa sarebbe stata essere infelice.
Peggio di Madame Bovary, con la soffitta e il ragno.
(Devo ricordarmene tutte le volte che sono di malumore).
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Max Klinger, Un guanto. Luogo, 1881
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Max Klinger, Un guanto. Azione, 1881
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Max Klinger, Un guanto. Desideri. 1881
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Max Klinger, Un guanto. Salvataggio, 1881
L’ambiente (Luogo) è presto descritto, anzi, la pista di pattinaggio appare ai nostri occhi animata da bella gente ma senza i fantasmi che fra poco scatenerà. Uomini, donne, tutti eleganti e con le rotelle ai piedi, si intrattengono con note di galanteria e piacevolezza.
C’è anche un cagnetto e una bambina è protagonista di una caduta rituale.
Uno dei motivi del fascino della serie di incisioni è esattamente la chiarezza della narrazione, sia nel realismo, come in questo caso, che nel clima allucinatorio che segue.
Proprio come al cinema, quando scatta l’Azione dimentichiamo dove siamo e siamo trascinati anche noi nella vicenda.
All’uomo cade il cappello; alla donna cade il guanto. Lui si affretta a raccogliere quest’oggetto intimo e potentemente sessualizzato, che innesca una narrazione con visioni elaborate di desiderio e di perdita, fino ad acquisire una vita propria.
Troviamo il guanto sul letto del protagonista, in una stanza le cui pareti si sono dissolte.
Inizia la voluttà. Segue a essa la disperazione per l’assenza.
Tutti temiamo, a un certo punto, che quello che amiamo sia in pericolo.
E, con un cambio di scena, troviamo il protagonista che cerca di arpionare il guanto che si sta perdendo fra i flutti della tempesta. Lui è su una barchettina a vela fragile e piccola come un guscio di noce.
(Mi viene in mente che nella storia ci sono stati guanti in pelle di agnello o di capretto conciate talmente sottili che in un guscio di noce potevano essere contenuti).
Un tiro di cavalli bianchi conduce il carro formato da una conchiglia. Non stiamo nemmeno a sottolineare quanto quest’involucro somigli spesso nelle raffigurazioni a un sesso femminile. Da esso si sporge il guanto, ormai autonomo, che tiene le redini e che si espone a un Trionfo che non è da meno di quello di Venere che tanta pittura ci ha descritto.
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Max Klinger, Un guanto. Trionfo, 1881
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Max Klinger, Un guanto. Omaggio, 1881
Bellezza del letto floreale sul quale scivola il singolare carro.
Sconfitta dell’amante, ormai sovrastato dalla potenza dell’oggetto.
Si può solo rendergli Omaggio.
Appoggiato su uno scoglio illuminato da fiaccole, il guanto viene lambito da onde fatte di rose, una fantasia fin de siècle fra le più belle prodotte da un periodo che ha saputo esprimere al meglio i bagliori della decadenza.
Ma i guai d’amore non sono finiti, perché il guanto prende nuovamente vita e tormenta in compagnia di mostri il sonno del giovane uomo.
Sono Paure, scatenate da un cambio di scala, l’onda lunga della bramosia erotica tortura nottetempo il deuteragonista di questa vicenda fantastica.
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Max Klinger, Un guanto. Paure, 1881
Ci stiamo avviando alla soluzione. Un intero sipario di guanti decora la scena sulla quale c’è un tavolino a tre piedi sul quale il guanto, dopo tante avventure, finalmente, trova il suo Riposo.
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Max Klinger, Un guanto. Riposo, 1881
Siamo autorizzati a dubitare della sua tranquillità, visto che uno strano animale, che molto somiglia a un coccodrillo guantato, fa capolino sulla sinistra.
Ed è un altro animale, uscito da un incubo preistorico, che scioglie la claustrofobica ossessione. Un uccello rapisce il guanto e vola via tenendolo saldo nell’orrendo becco.
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Max Klinger, Un guanto. Rapimento, 1881
Braccia disperate, mani vuote hanno trapassato i vetri rotti della finestra.
Notte tutt’intorno.
Chissà che profumo stordito emana quel cespuglio di fiori velenosi.
Ma come è entrato e da dove è uscito il volatile mostruoso?
Ci vuole poco a capirlo.
Esso è stato partorito dalla mente esaltata dell’amante, proprio come le visioni precedenti, i tormenti, le ossessioni, i momenti di meraviglia.
In amore, facciamo tutto da soli: disfiamo, inventiamo, produciamo immagini. Desideriamo.
Siamo moderni, no?
Dunque, incapaci di scendere a patti con la realtà.
Siamo moderni e vogliamo solo quello che non abbiamo.
Siamo moderni e ci innamoriamo dei pezzi e dei frammenti che qualcuno lascia cadere.
L’ultima scena, quella che io vi ho messo in apertura, segna l’acme della serie e della storia.
Numero dieci.
Un amorino, nudo e con le ali di libellula, ha deposto faretra e frecce, che, così, sembrano innocue, sottili come gli spilli dell’artista guantaio e incapaci di ferire e offendere.
(Vatti a fidare).
Rose, con tutte le loro spine, riempiono il lato destro della scena, che rimane un po’ nuda, elegante, silenziosa.
E in primo piano, lungo, disteso, sbottonato, finalmente tornato al mittente, dunque a Eros in persona (e a chi altro potrebbe appartenere), il guanto che tanta vicenda ha suscitato, tante tempeste, voluttà, tanta passione, esaltazione: stupita estasi.
Francesco De Gregori apprezza il ciclo di incisioni di Max Klinger tanto quanto noi. E noi apprezziamo la messa in musica e parole di questa favola così moderna.
Buon ascolto.