Che Luchino Visconti sia uno snob, falso comunista, aristocratico fino all’osso, incapace di fare realismo e neorealismo, si vede da due cose:
1. I suoi proletari mettono le scarpe sul letto. Lo fa Spartaco, quando spoglia la bambina per metterla a dormire, la deposita in piedi, tutta vestita, dalla testa ai piedi e dopo che lei ha pestato ben bene le lenzuola, la scalza. Lo fa Maddalena, triste e sconvolta dopo l’incontro finale col regista Blasetti e lei le scarpe se le sapeva togliere, infatti l’abbiamo vista una volta lanciarne una alla suocera e un’altra volta sfilarsele entrambe per togliere la sabbia della discesa al fiume.
2. I suoi proletari mangiano come aristocratici, ovvero come probabilmente mangiava lui. E come mangiano i ricchi, ovvero come mangiava Agnelli. E io che ne so, come mangiava Agnelli. Lo so perché ho visto Alberto Sordi che lo raccontava: una foglia di lattuga, un «paté fois gras», un pezzetto di formaggio. Poi arrivano i caffè. E a quel punto lui si rende conto che la cena è finita. Visconti fa la medesima cosa. Il film per due volte si trasferisce al Biondo Tevere, nota trattoria romana dove ha fatto la sua ultima cena Pasolini, dove a me capita di andare ogni tanto e dove si mangia come amano mangiare i proletari, e non solo, a Roma: a quattro palmenti. Dei pasti della famiglia Cecconi, si vedono solo i caffè.
Bellissima, 1951, con Anna Magnani, narra i sogni cinematografici della proletaria Maddalena, che non è esattamente un’infermiera ma che fa le iniezioni a domicilio e che ritiene che la sua bambina Maria possa fare carriera recitando nel film per il quale Blasetti cerca una piccola protagonista.
In tutta la mia vita non avevo mai avuto un moto di insofferenza nei confronti della Magnani, anzi lei mi era sempre stata simpatica.
Stavolta, no.
Stavolta è andata diversamente.
Lei, non capisci se è bella o se è una strega, ha un magnifico décolleté, le spalle piene, i seni che sorgono dalla sottoveste nera, ma poi è sempre scarmigliata, più si pettina, più si scarmiglia, non è capace di misura, ha una recitazione sempre sopra le righe, infatti lei non interpreta, lei baccaglia, lei è perennemente fuori di sé, è l’incarnazione dell’espressionismo, del tono in eccesso, non trova pace e non ti dà quiete.
Lei mi ha sfinita.
Ho pensato per tutto il film «adesso entro nel televisore e l’ammazzo, almeno si dà una calmata».
Avevo letto in una sua biografia della sua reazione al tradimento del marito Roberto Rossellini con Ingrid Bergman: lei gli prepara una cofana di spaghetti e gli dice, melensa: «A te la pasta ti piace ben condita, vero, Robertì» e dai che aggiunge sugo e aggiunge sugo e aggiunge sugo.
Poi quando la quantità di sugo ha superato il livello di guardia, prende la cofana e gliela rovescia sulla testa.
Mi sono chiesta per tutto il film come si possa passare da una donna così veemente a una specie di frigorifero a quattro porte modello svedese.
Non pochi uomini inseguono perennemente il medesimo tipo di donna, forse pure Rossellini, come me, non ne poteva più e sentiva il bisogno di disintossicarsi.
Ma torniamo al film.
Che ha tutta una serie di personaggi grotteschi, praticamente tutte le madri, tante delle bambine, bruttine, malnutrite, male abbigliate, la maestra di ballo; dei momenti esilaranti, come quello in cui il figlio del parrucchiere, ragazzino pure lui, incaricato di spuntare le trecce di Maria, gliele taglia di netto, mutando la richiesta acconciatura a boccoli in una garçonne; delle riprese di Roma, che sono poi la parte migliore, ma qui fra un po’ vi dico meglio, perché in questo sta, secondo me, il valore del film.
Un passaggio su Walter Chiari.
Che interpreta il ruolo di un faccendiere di quelli che abbondano nell’ambiente del cinema, nemmeno cattivo, solo, pure lui, un po’ cialtrone e con sogni di gloria.
L’attore veneto per tutta la sua peraltro lunghissima carriera ha sofferto di non essere stato preso sul serio come interprete drammatico, il meglio che è riuscito a offrire al pubblico è stato il suo lato comico, talvolta da mattatore, perfettamente a suo agio nel varietà, anche televisivo, grande barzellettiere, cabarettista, tombeur de femmes come si usava ai suoi tempi, tutte le sue donne erano vistose e in vista, alto, elegante, atletico.
Ma attore drammatico, no e poi no.
Di drammatico Walter Chiari ha avuto solo la parte finale della vita, l’arresto per consumo e spaccio di stupefacenti, per la precisione, cocaina, le TV private, la morte, che lo colse nel 1991, per infarto, seduto in poltrona davanti al televisore acceso.
È incredibile, come ogni momento della nostra vita, fine compresa, parli di noi e sia un paradigma della nostra esistenza.
Dobbiamo stare attenti a come moriamo.
Torno a Visconti.
Che ho molto, troppo amato, nella sostanza per il suo estetismo che ammiravo e che, rivisto col senno di poi, mi appare altro.
Senso mi ha annoiata.
Nel film, almeno trenta minuti, quelli goffi della battaglia, si sarebbero potuti tagliare.
Finora non ho avuto il coraggio di tornare su Morte a Venezia, 1971 e su Ludwig, 1973.
Un mio amichetto che si occupava di cinema e usciva con delle attricette facendomi gelosissima, nella maggior parte dei casi mi diceva lascia perdere, è meglio che te la ricordi com’era.
Come si fa con i morti.
Ma i morti non sono arte.
Laddove il cinema, delle arti, dovrebbe essere l’ottava, quella moderna.
Non ci siamo.
Perché una volta di più mi rendo conto che, se è vero che l’arte, quella di cui mi occupo io, è imperitura, il cinema è, invece e disgraziatamente, deperibile.
Quindi invecchia, così come invecchiano le persone, che possono invecchiare bene, oppure molto, molto male.
Una cosa imperitura, almeno finora mi pare, in Visconti: la città, che lui sente a pelle e che è sempre colpita al centro del bersaglio, l’aristocratico snob, la città ce l’ha nel sangue.
La Venezia di Senso.
Con la contessa che, innamorata del «vile ufficiale austriaco», attraversa le calli, innervata di Eros, pronta a tradire.
E infatti, tradisce.
Che cosa non farebbero le donne, pur si sentirsi vive, ovvero di farsi prendere da Eros.
E la Roma di Bellissima.
Una città data in pasto allo spettatore vorace del dopoguerra, con una vicinanza senza precedenti.
E tale vicinanza è rappresentata da Cinecittà.
Diventata nel 1944 campo di rifugiati, requisita prima dai nazisti, poi dagli Americani, essa simboleggia il passaggio dalla distruzione alla ricostruzione.
Ovvero, Cinecittà crea, e distrugge, identità.
Io l’ho visitata la prima volta nella mia vita all’inizio della mia carriera grazie ai colleghi di Scenografia che ci lavoravano.
Mi sembrò di entrare in una favola.
Tempo dopo, rispondendo a visite da Cinecittà proposte e da me organizzate, l’umore era cambiato, ma era sempre un umore che definisco qui, certa di essere compresa, cinematografico.
L’ultima volta è stata l’ultima.
Capisco i bisogni alimentari, tutti dobbiamo mangiare, ma proprio non se ne parla: il parco a tema, io non lo visito.
All’epoca di Bellissima, Cinecittà era «un palpitante laboratorio», che preservava «tecniche e saperi tradizionali…preziose conoscenze artigianali che sono sopravvissute fino al XX secolo».
Mi ricordo perfettamente, al tempo della seconda visita, un architetto che seguiva la mia attività, che mi stava parecchio simpatico e che stimavo che, mentre stavamo sul posto, mi disse ma tu guarda questi quanto sono bravi, quasi quasi cerco di portarmeli fra i miei operai, con loro faremmo meraviglie.
Questo, di buono, ha fatto Luchino Visconti con Bellissima.
Ha saputo tirare fuori la fatica del dopoguerra di costruire un’architettura mentale di un luogo dell’immaginario capace di unire cultura elitaria, la sua, e cultura popolare.
Roma è abitata da un popolo che è insieme antico e moderno.
E questa è la sua croce e la sua delizia.
Visconti, ineluttabilmente lombardo per nascita, cibo e educazione, ci ha provato.
Però, poi, come sui muri di Roma si legge spesso:
Insomma, per farla breve, Bellissima è un film che c’ha provato.
E che c’è riuscito un po’ qui e un po’ là.
Poi, sta a chi lo rivede, ovvero a coloro che non si accontentano del commento della scheda dell’enciclopedia o delle chiacchiere fra cultori di cinema, che i film, comunque, dovrebbero rivederli, altrimenti non si capisce di che stiano a parlare, aggiornare l’umore del commento.
Se il cinema è un’arte democratica, ovvero se il cinema, che è un’arte, e su questo sono salda tanto quanto la Rocca di Gibilterra, è un’arte per tutti, allora esso deve essere vissuto.
E vivere il cinema, significa farlo proprio, confrontarlo con la propria vita e la propria storia.
Dunque, quello che voglio sapere, è che cosa è stato di quella Roma e dei suoi, e di tanti altri, sogni di gloria.
Che sono poi la nostra vita.
E la nostra storia.