Biglietto n° 111: Il Rinoceronte di Albrecht Dürer, 1515
Nessuno è perfetto.
«…Così Iddio fece le bestie selvagge della terra, secondo la loro specie, gli animali domestici, secondo la loro specie e tutti i rettili delle terra, secondo la loro specie. Ed egli vide che ciò era buono»
Genesi, I, 25
«Contabile».
Alla domanda «Qual è il mestiere che non le piacerebbe fare», Marcello Mastroianni risponde con la gentilezza consueta, aggiungendo che sa di che parla perché il contabile lo ha fatto.
Un video frutto di montaggio di una trasmissione televisiva dal titolo Bouillon de culture, che traduciamo agevolmente con Brodo di cultura, andata in onda dal 1991 al 2001 su France 2, ideata e condotta da Bernard Pivot, giornalista e critico letterario, interpella con intelligenza alcuni intellettuali, politici, personaggi dello spettacolo non sul mestiere che piacerebbe loro fare, bensì su quello che non farebbero mai.
Ed ecco che Umberto Eco risponde sagacemente «l’intervistatore» a chi lo sta intervistando e che alcuni registi, che fanno un lavoro che a me sembra bellissimo, di creatività, decisioni, relazioni, rispondono in modo adeguato.
Bertrand Tavernier non farebbe mai la moglie di George Bush.
Woody Allen, la guardia carceraria e pure Robert Altman dà la medesima risposta.
Jean-Luc Godard non vorrebbe fare il Ministro dell’Interno.
Inoltre, Salman Rushdie non vorrebbe essere un uomo politico; Jack Lang, già Ministro della Cultura, non vorrebbe fare il collaboratore di Jack Lang; in tanti non farebbero il poliziotto, il giudice, il notaio (ma vedi oltre), il banchiere, il ginecologo, il chirurgo; pure il becchino riscuote un notevole insuccesso, per non parlare del boia, che comunque non avrebbe più niente da fare dal 1981, data dell’abolizione della pena di morte in Francia.
Il filosofo Michel Onfray risponde con due soluzioni, critico letterario e fossore, e dice che più o meno i due mestieri si equivalgono.
Tralascio i commenti, sto parlando di un post Instagram recente, che sono ben al di sotto dell’esprit de finesse che esprimono praticamente tutti gli intervistati, laddove i commentatori lamentano la mancanza nell’elenco dei mestieri più umili, voi ce lo vedreste Mastroianni, dire che non farebbe mai l’uomo delle pulizie all’aeroporto, e quelli (quelle) che si dolgono tanto per cambiare perché ci sono poche donne a rispondere.
Bisognerebbe ricordarsi di François Truffaut: «I film sono più armoniosi della vita. Non ci sono ingorghi stradali, nei film, non ci sono tempi morti. I film procedono come dei treni, capisci? Come dei treni nella notte».
Ecco, un programma televisivo, soprattutto se sottoposto a un montaggio, è come un film, certamente qualcuno si occupa dei bagni dell’aeroporto, ma per una volta questa può non essere la nostra preoccupazione principale.
O meglio, ti puoi pure interessare a tale mestiere, ma allora devi essere Gérard Depardieu, che esordisce così nella sua autobiografia: «Mia nonna abitava sul bordo della pista a Orly, dove passavo le vacanze da bambino. Nei gabinetti d’Orly – adoravo: “Partenza con destinazione Rio de Janeiro…” Putain, vanno a Rio! E correvo a vedere. Andavo anche a vedere quelli che tornavano. «Arrivo proveniente da…» Vedevo sfilare tutte le città del mondo: Saigon, Addis-Abeba, Buenos Aires…Io ero nei gabinetti. Lei, lei puliva i gabinetti…Dame pipi, la madre di mio padre. Per molto tempo ho viaggiato dai gabinetti di Orly…».
In quella trasmissione Gérard Depardieu non c’era, peccato.
Ma torniamo alla domanda, che è interessante perché mette in moto parecchi ragionamenti, per esempio, se a me qualcuno chiedesse quale lavoro mi piacerebbe fare, risponderei al volo «il critico cinematografico», e sto parlando di una professione che probabilmente mi riuscirebbe bene, mentre devo fermarmi un momento a riflettere su ciò che, al contrario, non vorrei fare.
Ecco, ci siamo: il comico.
Mai vorrei far ridere la gente per lavoro, secondo me i comici sono personaggi tragici, eredi dei buffoni di corte che dovevano sollazzare i sovrani, depressi cronici obbligati a indossare fissa una maschera.
Abbiamo fatto due Sorbetti, gli opp. 8 e 9, dunque, Sorbetti precoci, visto che siamo arrivati all’op. 158, dedicati al ridere.
Per scoprire che nell’arte si ride poco e che nessuno ride delle medesime cose, nel medesimo momento e nel medesimo modo.
Per distinguersi non si ride, si ride per riconoscersi in un gruppo, talvolta di iniziati, comunque si ride per definire la nostra appartenenza culturale, il riso libera e lega a un tempo, i posti dove in vita mia ho riso di più sono stati prima la scuola, poi l’Accademia, sarà che ridere come studente o come docente non sta bene, quindi ridi con ancora più gusto.
Non sono mai stata a teatro a vedere un comico, sto a disagio quando mi capita davanti un video buffonesco, disprezzo coloro che fanno ridere usando il turpiloquio, peggio dei registi di film gialli che ti fanno saltare sulla poltrona facendoti bum dietro la schiena.
Mi inquieta la presenza di pagliacci accreditati dappertutto, l’amministratore del condominio, l’avvocato, quello che si presenta dichiarando che ride pure della morte, per me Amici miei è un film incubo.
Una volta dal fornaio ho fatto fatica a controllarmi perché mi era venuta una voglia violenta di dare uno spintone a una signora che sosteneva che se uno cadeva, lei si faceva una risata, perché vedere cadere qualcuno è divertente.
Cadi tu, e ne riparliamo.
Su questo palcoscenico che si erge davanti a un pubblico che si contorce e si sganascia all’esposizione di testi scritti da un ventriloquo che sta dietro le quinte, il cui destino mi sembra ancora più doloroso di quello del guitto che si esibisce, ci sono alcune, delicate, eccezioni.
Una è rappresentata da Massimo Troisi.
Morto nel 1994, amato visceralmente anche da miei studenti di Napoli nati dopo il suo rapido passaggio su questa terra, l’attore è un velocista, nel senso che dà il meglio di sé su una distanza breve.
In scena da solo, con niente se non con la sua presenza, che riempiva tutto lo spazio, ha inventato alcuni dei momenti più alti della comicità italiana. Non ricordo di aver mai sentito una parolaccia, non ricordo un attimo solo di volgarità.
A fronte di quello che fanno oggi coloro che usano le scorciatoie più rapide per far sbellicare, una boccata di aria fresca.
Guardate qui, il monologo con Dio.
Nel quale mano a mano lui entra in confidenza e si permette di muovere alcuni rimproveri, perché hai scritto sulle tavole non fornicare, e chi ti capisce, tutti pensano che tu intendevi state attenti a non pestare le formiche.
E poi, quella cosa irresistibile degli animali, contrariamente a quello che pensa lui, non è che gli siano venuti bene del tutto.
In effetti, uno vede l’ippopotamo e come fa a non pensare guarda tu quanto è brutto.
Invece non sono d’accordo sull’elefante, che mi sembra un animale simpaticissimo.
E non credo di essere la sola a pensarlo, visto che i cartoni animati ne fanno spesso un protagonista, come in quell’episodio di Tom e Jerry in cui un Baby Elephant rotola letteralmente giù dal treno e finisce in casa dei due, per stringere subito un’alleanza col topo.
A danno del gatto, che non si capacita di trovarsi di fronte un sorcio gigantesco, frutto della proboscide arrotolata e di una passata di colore.
Fino a che Mamma Elefante, in cerca della sua creatura, non si unisce alla beffa, disorientando definitivamente Mister Pussycat.
In alternativa all’elefante, dunque, propongo di citare nella categoria degli animali venuti male il rinoceronte, di cui Albrecht Dürer ci fornisce un ritratto nel nostro biglietto di oggi.
Una nota mia. Ieri ho conosciuto un giovane notaio, per motivi per lui professionali, per me, privati.
Non potevo lasciarmi scappare l’occasione.
Gli ho chiesto fra una firma e l’altra se gli piaceva il suo lavoro.
«Tantissimo», mi ha risposto.
Gli ho chiesto che cosa avrebbe voluto fare da grande quando era ragazzino.
«Il notaio», mi ha risposto.
E mi ha raccontato la bellissima storia del nonno contadino di Aversa che quando era piccolo lo prendeva sulle ginocchia, gli dava una penna e gli diceva: «Adesso scriviamo un atto».
Il nonno aveva deciso che cosa avrebbe fatto il nipotino da grande e lui lo ha accontentato.
È stato il notaio più poetico della mia vita.
Quando ci siamo salutati mi ha porto con un gesto gentile una delle penne con la pubblicità del suo studio che stavano sul grande tavolo di quella luminosissima stanza in un magnifico appartamento del primi del ‘900, non lontano dalla mia scuola.
Mi ha detto che rimaneva a mia disposizione.
Gli ho risposto che contavo di comprarmi presto un appartamento come quello e gli ho assicurato che lo avrei incaricato di tutte le pratiche relative.
Certe volte, le ciambelle riescono con un bel buco e fare il notaio è un mestiere geniale.
Biglietto n° 111: il Rinoceronte di Albrecht Dürer, 1515. Brutto, è brutto.
Grosso, grasso, lunghezza m 4, peso fino a kg 3.000, in più con quel corno in mezzo agli occhi, che ha sempre davanti e che condiziona la sua visione, meglio, la sua vista del mondo, proprio come nella vignetta di Scott Hilburn.
Perché, la pelle che vi ha fatto.
Arriva fino a cm 4 di spessore, praticamente una cotenna impenetrabile.
Brutta, pure la pelle, tutta a pieghe tipo quella dello Shar Pei, il cane fatto a ciambelle, che mi fa venire in mente una ciambella venuta male.
La differenza fra questo cane e il rinoceronte è che il secondo non ha peli, quindi deve difendersi dal sole in altro modo e lo fa rotolandosi nel fango.
Pure questo.
L’animale in questione vede poco, non arriva oltre i m 13, quindi supplisce con l’allungamento delle orecchie, sede dell’udito.
Nonostante la stazza corre molto veloce, arriva fino ai 40 km/h.
Ciò cui più assomiglia è un carro armato.
A questo proposito, c’è pure un videogioco, che si chiama World of Tanks, che cita un corazzato pesante italiano rimasto allo stadio di progetto, appunto il Rinoceronte.
Il sex appeal è quello.
Come faccio a sapere tutte queste cose.
Perché vedo i documentari della Disney destinati ai ragazzini.
Videogioco a parte, perché lì ci sono arrivata io, i documentari Disney hanno paura che i ragazzini vengano su aggressivi, quindi delegano ad altri questo incarico e restano smielati e improbabili.
Ma veniamo al nostro biglietto di oggi.
Il rinoceronte già sembra strano a noi, figuriamoci come dovette sembrare nel secolo XVI ad Albrecht Dürer.
Che non lo vide mai di persona, ma che lo conobbe attraverso un disegno che gli era stato mandato.
Il 20 maggio del 1515, e non del 1513 come riporta il testo in alto, arrivò a Lisbona un dono eccentrico proveniente dall’India per il re del Portogallo Manuele I: avete indovinato, un rinoceronte.
Qui la storia si imbroglia e le notizie che si accavallano e si smentiscono mi sembrano il segno di una narrazione favolistica.
L’unica cosa certa è che l’animale morì affogato, o cadendo dalla banchina, immaginate il tonfo, o durante il trasporto a Roma, stavolta dono riciclato destinato a papa Leone X, per un naufragio, per la precisione nel golfo di La Spezia, insomma fece in anticipo la fine che avrebbe fatto nel 1822 Percy Bysshe Shelley: una fine romantica.
Dürer realizza dal disegno una xilografia, divenuta giustamente famosa, che andiamo a inserire nel suo serraglio.
Lavora parecchio di fantasia e va esattamente nella direzione che abbiamo detto.
Il rinoceronte ha un corno grande sul muso e un altro più piccolo sul dorso, zampe squamate ed è corazzato di tutto punto.
L’abito che indossa, perché a noi sembra davvero che sia vestito, è un inventario di motivi decorativi, chiazze, quadrati, ovoli, macchie, meglio di un cartone animato, sembra che abbia una mantellina e le maniche col bordo.
Ancora una volta, quella che io chiamo siepe leopardiana, ovvero qualcosa che ostruisce la vista, potenzia l’immaginario.
L’artista ha inventato praticamente al buio, sulla base di una narrazione esigua e ci mette davanti a un’evoluzione del mitico unicorno, diventato più tosto per i fatti dell’esistenza.
Perfino l’espressione triste e rassegnata del muso corrisponde al catalogo del maestro tedesco, la cui empatia nei confronti dell’animale è manifesta.
Siccome le cose capitano a chi se le va a cercare, non mi stupisce il mio incontro col Rinoceronte di Dürer e una cantina piemontese, La Spinetta, di cui vi propongo una buona bottiglia.
Anche in questo caso, come per la Pojer e Sandri di cui parlammo a inizio mese, all’origine della creazione dell’etichetta c’è uno scambio fra un vignaiolo e un appassionato d’arte.
Se avete voglia di un ulteriore passo per approfondire la conoscenza, vi mostro anche Il Rinoceronte di Pietro Longhi.
Siamo a Venezia, nel corso del carnevale del 1751 e nell’area marciana sono allestiti casotti con curiosità e attrazioni.
In uno c’è Clara, venuta dal Bengala, custodita dal proprietario Douwe Mout van der Meer, un capitano della Compagnia delle Indie olandesi.
Ci sono le maschere, bautta e moretta e c’è pure il dettaglio terribile del corno esibito.
Il destino del rinoceronte, come spesso accade nella vita, sembra segnato dall’aspetto fisico: un fenomeno, da viaggio o da baraccone, un eccentrico che portato lontano da casa suscita sorpresa, bizzarro interesse, meraviglia abnorme.
Ha ragione Troisi: il Padreterno, che aveva a disposizione l’eternità, aveva tutto il tempo per fare qualche esperimento a parte, evitando di creare, stavolta il verbo è giusto, animali riusciti così male da sembrare ciambelle senza buco.
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