Patti chiari. «Niente peli in faccia, unghie pulite e tagliate, non indossare la giacca da chef fuori dal ristorante e, comunque, siete responsabili del suo lavaggio. Niente scherzi o burle in cucina, non vogliamo nessun malinteso. Pantaloni e scarpe devono essere neri; dovete sempre avere con voi una piccola spatola (un coltello piatto con una punta arrotondata). Non bere sul posto di lavoro e non fare tardi: arrivate tardi più di una volta, e sarete rimandati a casa…Ho una lista di tremila persone che vorrebbero essere dove siete voi…così, se devo buttarvi fuori, ho un sacco di gente che aspetta di prendere il vostro posto».
Come vedete, non si parla di tatuaggi e dubito fortemente che essi fossero ammessi nella cucina del più importante ristorante del mondo.
Dunque, deduco che nel 2009, anno cui si riferisce la brillante narrazione di Lisa Abend della sua stagione a elBulli, i tatuaggi non avessero ancora preso piede.
Altrimenti è certo che sarebbero stati citati nell’elenco dei caveat enumerato il primo giorno di lavoro degli stagisti da Marc Cuspinera, braccio destro di Ferran Adrià, figura leggendaria della ristorazione.
I trentadue prescelti sono tutti chef giovani e ambiziosi, che prestano servizio in locali di fama internazionale e che per ricevere istruzioni da Adrià e dai suoi cuochi sono disposti a viaggiare e a soggiornare a proprie spese, lavorare, se serve, anche quattordici ore al giorno in cambio di un pasto, di un posto letto in un appartamento poco attraente e nessuna paga.
«Questo è il motivo per cui stanno fermi per sette ore, con i piedi piantati davanti al bancone centrale, spremendo il germe di migliaia di chicchi di mais e togliendo la melma dagli anemoni di mare».
E ancora.
«Uno stage a elBulli è come un battesimo. Senza di esso, non sei davvero un cristiano», parola di Luca Balboni, italiano.
Sono andata a cercare sue notizie e ho trovato un grande chef, che racconta: «Nel 2009 ricevo una mail dal team di Ferran Adrià, così che mi ritrovo nella brigata di pasticceria del Ristorante numero 1 al mondo, 3 stelle Michelin, El Bulli a Cala Montjoi dove resto fino alla chiusura».
Perché elBulli ha chiuso, e non perché gli affari andassero male, anzi, ma perché era un luogo di avanguardia, dunque destinato a cadere e a diventare altro.
In questo caso, una fondazione dove si rielabora un’esperienza eccezionale, non solo di quelli che c’erano, ma anche di coloro che vengono a sapere e che da essa traggono linfa vitale.
Sì, perché l’interrogativo intorno al quale ruota l’esistenza di ciascuno di noi a me sembra che sia «perché ti sei alzato dal letto stamattina» e se sei stato prescelto per uno stage a elBulli, un motivo ce l’hai, e pure serio.
Ma torno a Lisa Abend.
Già docente di Spanish History negli USA in quella che lei chiama «una vita precedente», ora giornalista di base a Copenhagen, era citata con il suo libro The Sorceres’s Apprentices (Gli apprendisti stregoni), 2011 in un articolo di Jeff Gordinier, scrittore americano che molto si interessa di cibo.
Lisa Abend scrive molto bene e molto bene osserva quello che succede a elBulli.
Uno non deve essere un appassionato di alta cucina (e poi, perché no) per godere di una narrazione brillante e puntuale di uno dei più affascinanti dietro le quinte che mai sia stato proposto.
Lei è una specie di esperta delle implicazioni che si porta dietro uno stage, come abbiamo detto non remunerato, in un grande ristorante.
Ebbene, quello che esce fuori è l’apprezzamento da parte dei giovani chef dell’educazione che apprendono non tanto relativamente ai piatti che imparano a preparare, ma, di più, su come una cucina professionale funziona.
Ci sono poi il cameratismo, i legami che si annodano fra coloro che lavorano spalla a spalla, ora dopo ora, giorno dopo giorno, sgusciando ostriche e pulendo erbe e a proposito del nonnismo che ogni tanto esce fuori, molti dichiarano di essere soddisfatti di essersi messi alla prova.
C’è nostalgia.
Lei racconta che uno chef che aveva fatto lo stage nel 2009 le aveva confessato che vedendo un documentario su elBulli era quasi scoppiato in lacrime.
Dedicheremo al fine dining il Sorbetto stellato op. 147, però intanto, visto che mangiamo tutti i giorni e che tutti i giorni ci alziamo dal letto e, parlo per me, c’è sempre bisogno di un motivo per farlo, oggi ci andiamo a occupare di un uomo notevole, di colui che è all’origine della semplificazione dei menu e della cucina leggera, per non dire della creazione del sistema moderno dei ristoranti: Auguste Escoffier, 1846-1935.
«La semplicità non esclude la bellezza». La mia edizione de Le guide culinaire pesa g 1.307 e, giustamente, non ha nemmeno una fotografia.
Essendo l’uovo il mio cavallo di battaglia, mi azzardo a riferire qualche informazione.
Chiamato da Escoffier il Proteo della cucina e «il simbolo del mondo», esso si può cucinare in duecentoquattro modi: mi sono messa lì e con santa pazienza ho contato le ricette.
C’è di tutto, ho trovato pure le Oeufs Frou-Frou, tutto suddiviso in sei grandi famiglie, raccontato con precisione e con una scrittura limpida e appassionata, insomma, vi sto dicendo che questo librone, presentato come «promemoria di cucina pratica», si legge come un romanzo.
Ma non ho finito e voglio aggiungere che, visto che mi trovo abbastanza a mio agio con l’omelette, probabilmente per merito di una padelletta alla quale devo molta riconoscenza, se sono poco ispirata posso scegliere fra settantanove suggerimenti, anche dolci.
Se volete sapere se davanti a Auguste Escoffier mi sento piccola piccola, la risposta è no.
La mia teoria, messa a punto e costantemente confermata in anni e anni di confronto con artisti immensi, è che chi è veramente grande ti esalta, è il mediocre che ti mortifica.
Escoffier da giovane cucinò per l’esercito nella guerra franco-prussiana e capì che molti dei protocolli militari si addicevano anche alla cucina «che, non diversamente dal campo di battaglia, è un posto pericoloso e caotico che tende a produrre fra i suoi frequentatori un’intensa sensazione di spirito di corpo come fra sopravvissuti».
Dunque, lo staff di una cucina da Escoffier in poi è definito brigade ed è organizzato in modo rigorosamente gerarchico, con in testa lo Chef de cuisine e a seguire tutti gli altri.
Le guide culinaire è stato pubblicato la prima volta nel 1902 e l’introduzione ci appare ancora oggi decisamente moderna, aperta alle novità, attenta alle esigenze di una clientela che conduce una vita «ultra-rapida», che induce a eliminare il superfluo, a rivedere i grandi classici del passato e a lasciare spazio alle novità.
Del resto si parla di Art Culinaire e l’arte, per sua natura, è ciò che crea.
Prima di passare al nostro biglietto di oggi, vi propongo dunque due creazioni di Auguste Escoffier.
La Poire Belle Hélène, 1864.
Ispirato all’omonima opera buffa di Offenbach, è un dessert di «poires pochées nappées d’une sauce au chocolat», pere cotte ricoperte di una salsa al cioccolato, ma in originale è più buono.
La Pêche Melba vede la luce una trentina di anni dopo, nuovamente con sottofondo musicale.
Si tratta di un «dessert glacé mythique et incontournable» con una base di gelato di vaniglia, sul quale sono deposte pesche bianche pochées in uno sciroppo vanigliato, il tutto cosparso di una purée di fragole fresche.
Esso fu inventato in onore di Madame Nellie Melba, soprano di nazionalità australiana.
La cantante si esibiva al Covent Garden a Londra e ha abitato due anni nel poco distante Hotel Savoy, proprio quando Auguste Escoffier dirigeva le cucine di questo luogo mitico, impegnato come almeno altri cinquemila chef a diffondere i ristoranti à la française nel Regno Unito.
Il profumato omaggio a una donna da parte di un cuoco ci porta dritti dritti oltre Manica, dove possiamo finalmente consultare gli oggetti del nostro biglietto.
Biglietto n° 81: I menu di Auguste Escoffier per l’Hotel Carlton di Londra, 1907-1908. La prima cosa che vi dico è che ho una passione per gli alberghi, che considero luoghi altamente narrativi, ampiamente letterari, profondamente legati all’immaginario.
Vi mostro un mio recente acquisto.
Si tratta di un pesante vassoio di servizio del Park Lane Hotel di Londra, un po’ graffiato, con il logo consumato ma perfettamente leggibile, che è, appunto, servito negli anni ’20.
Questo era l’albergo all’epoca.
Entrato a far parte della catena Sheraton nel 1997, esso è stato restaurato filologicamente ed è uno dei più bei luoghi londinesi dell’Art Deco, ancora oggi capace di far sognare.
Quello che non esiste più è invece il Carlton Hotel, qui ritratto in una foto del 1905.
Gestito in origine dallo svizzero César Ritz, con Auguste Escoffier come Chef, restò aperto dal 1899 al 1940 e nei suoi primi giorni era considerato uno degli hotel più alla moda di Londra, capace di portar via non pochi clienti al Savoy, come abbiamo visto gestito precedentemente da
gli stessi due uomini, geniali nel gusto e negli affari.
Vi propongo oggi i menu autografi di Escoffier quando passò, come dicono loro, a officiare al Carlton.
Il sostantivo menu, ci insegna il grande chef, «ha due accezioni…l’insieme dei cibi e delle bevande che entrano nella composizione di un pasto…la carte sulla quale questo programma è trascritto».
Sul mercato antiquario è anche disponibile il Livre des Menus, raccolta di venti carnet eccezionali a firma di Escoffier, datati fra il 1905 e il 1918, complemento indispensabile al Guide culinaire.
La carte presentata al cliente comporta sia il menu a scelta unica e a prezzo fisso, che un elenco, accompagnato dai prezzi, di piatti che possono essere scelti: «È nel servizio à la carte che uno chef di valore trova le sue più belle occasioni di affermare la sua superiorità professionale».
L’interesse di questi documenti è fondamentale, trattandosi di un insieme che registra giorno per giorno il lavoro che fa lo chef per stabilire che cosa proporre quotidianamente ai clienti, in questo caso del Carlton.
Il ristorante luogo di convivialità così come lo conosciamo noi oggi nasce alla fine del Settecento, epoca cui data la prima menu-carte conservata in una biblioteca, ovviamente francese.
È possibile scrivere la storia attraverso i menu, il cui carattere effimero rende ancora più pregevole e raro l’incontro.
La comprensione dei costumi della tavola e dell’arte culinaria aiuta non poco a capire come sono andate e come vanno le cose.
«Dimmi ciò che mangi, e ti dirò chi sei» lo scrive Brillat-Savarin nella sua Physiologie du goût del 1826.
E non mi sembra un caso che in tanti ripetano quello che è uno degli Aforismi del professore che compaiono in apertura del delizioso volumetto, casomai senza conoscerne la fonte, ma certamente avendo compreso la profonda verità di questa affermazione.
Curzio Malaparte, ne La pelle, lo dice forte e chiaro: «Che vale attraversare il mare, invadere un paese, vincere una guerra, incoronarsi la fronte dell’alloro dei vincitori, e poi non saper stare a tavola? Che razza di eroi erano questi americani, che mangiavano granturco come le galline?».
Come si sarà capito, oltre agli alberghi mi piacciono anche i menu, sarà che gli uni e gli altri mi danno a un tempo il senso dello spaesamento e della quotidianità, ingredienti che considero entrambi indispensabili.
Questi sono i menu della mia piccola e personale raccolta (non chiamatela collezione).
Il più vecchio è datato al 1894, il più recente al 1977.
Quest’ultimo è scritto a macchina su un foglietto ritagliato e incollato su un cartoncino blu ed è bruttissimo.
Pure se è pieno di buona volontà. Insomma, il pranzo di Pasqua che vi è narrato è amorevole e curato e mi dico che devo smetterla di essere cattiva con tutti quelli che cercano un motivo per alzarsi dal letto la mattina e che lo trovano dove possono, fosse pure in un’espressione mediocre della loro cucina.
La mia idea di comprare i menu di Escoffier del nostro biglietto di oggi è rimasta, è il caso di dirlo, sulla carta.
Essi sono venduti dalla Antiquariat Inlibris di Vienna a € 12.500,00.
Una cifra che denuncia la preziosità dell’oggetto, che contempla l’ideazione di quattro dinner privati, due, abbiamo detto autografi, annotati con i nomi degli ospiti e le date, gli altri trascritti da un impiegato.
La carta è un po’ rovinata, per via del tempo e perché è stata ritagliata.
Ma volete mettere.
Se vi serve qualcosa per dare un senso alla vita, a me serve sempre, qui lo trovate.
Nei menu di Escoffier c’è inventiva, sapienza, eleganza, applicazione, straordinario attaccamento al proprio lavoro, gusto di descrivere e raccontare ciò che viene dato da mangiare a qualche privilegiato.
Che speriamo abbia capito il privilegio che gli è toccato in sorte, narrato su un pezzo di carta.
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**** Il titolo di questa Newsletter è l’attacco dell’aria di Don Giovanni nella Scena XVI del Secondo Atto nell’opera di Mozart-Da Ponte, dove tutto, guarda un po’, ancora una volta si risolve a tavola e mentre si mangia ***** In questa Newsletter trovate scritto elBulli in modo diverso perché ho rispettato i testi che ho consultato. Il mio uso de elBulli è filologico perché è Ferran Adrià a chiamare il suo ristorante in questo modo (che usa anche Lisa Abend)
****** L’illustrazione di apertura, le Pupazzine e i Sorbetti sono di Lorenzo Rocco
******** L’assistenza tecnica è di Virgilio Piccardi