Antoine Vollon, Il tumulo di burro, 1885

L’altro corno del diavolo. Secondo gli italiani, almeno quelli da Firenze in giù, più esiziale del pepe c’è solo il burro.
Esso è considerato il portatore di tutti i mali anche da persone che al ristorante non esitano a ordinare le penne rigate ai quattro formaggi: parmigiano, emmental, taleggio, gorgonzola.
A parte la stupidità della ricetta, i formaggi sciolti mi fanno il medesimo effetto dei gatti, che di notte sono tutti bigi.
Parimenti, i formaggi fusi li assimilo tutti alle sottilette.
E allora la fonduta.
Quella va bene con una corona di Alpi intorno.
In mancanza di Alpi, mangio altro.


Anche i finocchi cucinati col burro, che, come si dice, è la morte loro.
Ma se metto in tavola questa pietanza, il commensale mi guarda come se volessi assassinarlo sul posto.
Perfino la Barilla, che pure ha le sue radici a Parma, ha tolto dal commercio le Burrelle, che si trovano ormai solo nel suo archivio storico.

Lasciando sugli scaffali dei supermercati la pirotecnia degli altri biscotti, i cui nomi sono probabilmente più interessanti del sapore.
Io sono figlia di madre piemontese, dunque è probabile che da qui derivi il mio atteggiamento possibilista.
Quando eravamo ragazzini, lei ci dava per merenda pane, burro e zucchero. Contrariamente alla madre di Linus, che sul pane mette solo lo zucchero, da cui il fumetto che dice: «mai mangiare pane e zucchero in un giorno di vento», rischi di ritrovarti con in mano solo la fetta.

Se quella benedetta donna sul pane avesse messo pure il burro, non sarebbe successo.
La diffidenza nei confronti di questo nobile derivato del latte è tale, che mi sono messa a fare ricerche.
Ho ripreso un supplemento di «MicroMega» del 2004, sul quale molto avevo già lavorato.
Il titolo è Il cibo e l’impegno e in esso intellettuali diversi ragionano sui collegamenti che ci sono fra cibo e, direi, il resto del mondo: religione, archeologia, cinema, filosofia, arti figurative, politica e via ragionando.
Simona Argentieri, psicoanalista, riflette sul mangiare, che è «l’atto più antico e più intimo che si possa immaginare: qualcosa entra in noi, si trasforma e ci trasforma».
Nota pure come il tasso di aggressività su certi argomenti sia altissimo.
Lei parla di vegetariani, in corsivo e mi farebbe piacere chiedere alla simpatica signora se ha continuato a osservare la montata della suddetta aggressività da parte dei vegani, stavolta senza corsivo, che forse non si nutrono di carne, pesce, insaccati e nemmeno di latte, uova e miele, ma che a me fanno spesso l’impressione di voler addentare la carne umana, data la bellicosità con cui ti espongono le loro ragioni.
Essi non mangiano nemmeno il burro, ovviamente, e non perché sia grasso, ma perché deriva dal latte.
E qui il salto è naturale e logico: latte = madre.
Simona Argentieri non arriva al burro, al burro ci arrivo io e ci arriva un’altra psicoanalista, Gisèle Harrus-Révidi, che si occupa della psicoanalisi della gola (Psycanalyse de la gourmandise, 1994).
Chiarisco che è per puro caso che oggi, in questa Newsletter, ci siano due signore che fanno il medesimo mestiere.
Io trovo spesso che gli psicoanalisti delirano, così come tante logopediste sono disfoniche, che volete farci, sono le contraddizioni dell’esistenza, però, ogni tanto, i primi dicono cose plausibili e interessanti.
(Sulle seconde continuo a nutrire dubbi).
Stavolta Gisèle Harrus-Révidi definisce il burro e il formaggio «succedanei concentrati del latte della madre» che abbondano «sul mercato commerciale come per dare realtà materiale e consistenza all’oggetto perduto per sempre e divinizzato: “Isaia aveva profetizzato che il divino bambino nato dalla Vergine, il Redentore, si sarebbe nutrito di burro e di miele”».
La prima cosa che viene in mente è che il Redentore non era vegano.
Poi, è vero che il burro ha in sé qualcosa di regressivo.
E anche di folle, se il Cappellaio matto se la prende con la Lepre per via del burro che ha messo negli ingranaggi dell’orologio, che è in ritardo di due giorni:
Te lo avevo detto che il burro avrebbe guastato il congegno! — soggiunse guardando con disgusto la Lepre di Marzo. — Il burro era ottimo, — rispose umilmente la Lepre di Marzo. — — Sì ma devono esserci entrate anche delle molliche di pane, — borbottò il Cappellaio, — non dovevi metterlo dentro col coltello del pane.

L’orologio finisce nella tazza di tè.
Proprio come una tartina imburrata, viene da pensare.

Per non parlare di Cappuccetto Rosso, qui interpretata da Jessie Willcox Smith, illustratrice americana, che non lascia dubbi sulle intenzioni del lupo.

Jessie Willcox Smith, Cappuccetto Rosso

Ebbene, nella favola di Perrault la piccina porta alla nonna un «petit pot de beurre» e il vasetto di burro nel testo compare per ben quattro volte e viene considerato ambiguo, in quanto liscio e, in quanto allusivo a un desiderio forse non solo alimentare, seduttore.
Quante pieghe nelle cose, vero?, al punto che una volta di più ci rendiamo conto che niente è ciò che sembra o, meglio, che tutto è ciò che sembra ma è anche altro.
Come per esempio nel delizioso acquerello del 1894 di Carl Larsson, che si intitola La cucina.

Carl Larsson, La cucina, 1894

In esso le figlie dell’artista, Susanne e Kersti, stanno sbattendo il latte nella zangola, per trasformarlo in burro.
Non so se sia un caso, ma il titolo sul mio catalogo compare in ben otto lingue e solo il  tedesco, l’olandese e il finlandese ci dicono che cosa stanno facendo le due bambine.
In tutti gli altri casi quella che ormai considero una magra censura si è abbattuta sulla cucina.
Nessun dubbio, invece, sul protagonista del nostro biglietto di oggi.

Il Tumulo di burro di Antoine Vollon, 1885. Impresa non facile, tradurre il titolo. Il dipinto è a Washington, nella National Gallery of Art, dove è catalogato come Mound of Butter, laddove mound significa tumulo. 
Ma l’artista è francese, dunque, su un mio testo il titolo è Motte de beurre.
motte è la zolla.
In un primo tempo avevo tradotto con panetto, ma il diminutivo non mi convinceva.
Perché siamo davanti a una vera e propria montagna.
Una montagna cremosa e gialla appoggiata su un tavolo di legno.
Il fondo è verde oliva.
Più in basso c’è qualcosa di simile a un cencio bianco, quello che probabilmente avvolgeva il burro.
Sulla sommità ci sono dei segni come di una sgorbia, con dei solchi.
Una paletta di legno, lunga e stretta, è conficcata verticalmente sul lato destro ed è sommersa dal burro, fino all’impugnatura.
L’artista è un accademico che è stato colmato di onori ma che ha mancato la svolta avanguardista dell’Impressionismo, finendo così dimenticato dalla storia dell’arte.
Vollon di solito dipinge nature morte e paesaggi, e qui ha unito le sue due specializzazioni.
Infatti il burro si erge come una massa naturale, abbiamo detto una montagna, con le asperità, l’incombenza e la teatralità tipiche di qualunque altura.
Le due uova posate sulla destra sembrano minuscole, come per la volontà di accentuare la monumentalità del tumulo.
La composizione è audace, originale, le pennellate sono, giustamente, pastose, piene di foga, sentiamo la materia, il volume, l’odore, il tumulo di burro ci appare come un tempio eretto in onore di un dio che apprezza il grasso, l’energia, il nutrimento, anche la tenerezza e, infine, la morbidezza.
Si dice questa carne è un burro ed è fatta di burro una persona capace di benevolenza e arrendevole.
Tutte connotazioni di mitezza, una mitezza che, paradossalmente, viene accolta con atteggiamenti belligeranti.
Almeno da Firenze in giù.
In vita mia ho visto qualcosa di simile al nostro biglietto di oggi solo una volta, per la precisione al mercato di Ponte Lungo, qui a Roma, vicino a casa mia, in esposizione su un banco che vende formaggi, salumi e pane.
E evidentemente, burro, un burro color burro, grande, sontuoso, maestoso, che ha suscitato nei clienti, affatto abituati a una visione così inconsueta, interrogativi diversi, ma che roba è e se è quella roba lì perché non arriva in panetti piccoli, di quelli da un etto e mezzo, destinati a rimanere nello sportello del frigorifero oltre la data di scadenza, dimenticati, negletti dalla cucina mediterranea, anzi, addirittura ostracizzati.
Fino a che una Newsletter morbida e tenera non si permette di tesserne l’elogio.
Perché il burro è buono e certe volte, come ho inteso dimostrarvi oggi, anche bello, così invitante, trionfante, così capace di suscitare desiderio.

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