Il macinapepe Bistro della Peugeot, 1874

Bigger than Life. Il fatto è che abbiamo visto Versailles.
Dunque, amiamo le Roi Soleil.
E mai ci verrebbe in mente di considerare Philippe d’Orléans, fratello del re, un nullafacente insulso e fastidioso.
Anzi.


Ma nel film le cose stanno diversamente e i due sono antipaticissimi.
Per fortuna, però, c’è dell’altro.


Vatel esce nel 2000 e racconta le vicende finali di François Vatel, Maître d’hôtel, prima di Fouquet, l’uomo più ricco di Francia, poi del principe di Condé, incaricato da quest’ultimo nel 1671 di organizzare non solo una cena, ma tutta l’accoglienza in onore di Louis XIV, in visita a Chantilly.
Chantilly come la crème.
Quella degli altri.
E quella mia.

Realizzata a partire da un superbo baccello di Vaniglia Gourmet del Madagascar che avevo in casa, aggiunto alla panna e allo zucchero a velo che sono andata a comprare sospendendo la scrittura di questa Newsletter perché mi sembrava il caso di passare all’atto, essa è venuta buonissima.
Ma chi ha inventato la crème Chantilly?
Bravi. François Vatel.
Panna bella fredda, zucchero a velo, vaniglia.
Geniale e facile facile, apparentemente.
Ma torniamo al film.
Che io avevo visto in sala quando uscì e che avevo classificato nella memoria come capolavoro.
Invece. Invece noto una volta di più che il cinema non condivide con le altre arti una delle loro virtù più alte, il cinema invecchia, laddove un romanzo, una musica, un dipinto non hanno il destino caduco di tutti i mortali, posso rileggere cento volte Madame Bovary, ascoltare stasera il Don Giovanni, fare una lezione sulla Cappella Sistina e mai, dico mai, provo la sensazione di trovarmi di fronte a qualcosa di superato.
In questo il cinema assomiglia alla moda, davanti a una foto di trent’anni fa, uno pensa ma guarda tu come eravamo conciati.
Ho rivisto Vatel in versione originale e in due ore sono passata da «bello, ricordavo bene» a «c’è qualcosa che non mi convince».
Per esempio il biglietto che Anna de Montauisier, dama di compagnia della regina, fa recapitare a Vatel, che è scritto in inglese.
Produzione anglo-francese, ma regista, Roland Joffé, e sceneggiatrice, Jeanne Labrune, pienamente gallici, dunque, rendiamo loro onore.
Musica di Ennio Morricone, ma a un certo punto arrivano i Royal Fireworks di Händel, che datano al 1749 e che sono stati composti in onore di re George II.
Se lo viene a sapere Louis XIV, se la prende a male.
La mia enciclopedia del cinema scrive che la cornice vale più del quadro e un po’ è vero.
Sintetizzando, il film è un evidente pastiche che fatica a mettere tutti d’accordo, ma almeno due elementi fanno la sua gloria.
Il primo è la bellezza di Uma Thurman.

Stranita, straniata, diafana al punto da sembrare un’apparizione, la duchessa arriva al seguito del re.
È una dei duemila invitati, ma è la prediletta, visto che il sovrano le comunica che vuole il piacere di bere con lei una tazza di cioccolato nella sua camera.
Nottetempo.
E come fai a dirgli di no.
Lei viaggia con la gabbia del suo canarino, che appena arrivati a palazzo cade a terra e abbiamo dunque modo di apprezzare subito l’animo nobile di Vatel, che risolleva la gabbia e mette una freccia al posto del posatoio.
Freccia = Eros, e come fai a non pensarci.
Loro avranno una notte d’amore e lui offrirà uno dei suoi amati pappagalli al posto del canarino: serviva un cuore di uccello per curare la gotta del Principe di Condé e quello del canarino, sostiene, era troppo piccolo.
Dunque, Vatel.
Interpretato da uno straordinario Gérard Depardieu, che è praticamente l’unica ragione di essere del film.

L’attore cresce in una famiglia proletaria, in compagnia di cinque fratelli e sorelle. Il padre è alcolizzato. La nonna era «dame pipi» all’aeroporto di Orly, nel senso che puliva i gabinetti. Lui lascia la scuola a tredici anni, ruba, traffica, fa la guardia del corpo, si prostituisce. A vent’anni sale, come dicono loro, a Parigi e gli viene in mente di imparare a recitare. Riacciuffa il suo ritardo culturale, lavora per migliorare il suo eloquio e la sua memoria.
In breve, diventa l’istrione che sappiamo, gigantesco, incontenibile, capace di tutto.
In Vatel passa dai toni orgogliosi intrisi di filosofia che usa con la gente della corte alla gentilezza dei dialoghi con i collaboratori.
Al fascino della duchessa non oppone resistenza, peccato che abbiano avuto una sola notte.
Lui in quindici giorni ha organizzato quattro banchetti spettacolari, completi di musica e danze, per venticinque tavoli, per ciascuno dei quali ha previsto cinque servizi.
Il re e la corte contavano da soli duemila persone, poi c’erano altri invitati, da sostentare anche negli intervalli.
Nel frattempo Vatel organizza la caccia, le lanterne, si inquieta per il temporale in arrivo, controlla il chiaro di luna.
Non dorme da dieci giorni.
Quando si rende conto che il pesce ordinato per il pranzo finale non arriverà in tempo per via delle difficoltà della pesca e delle strade dissestate, consuma in solitudine un ultimo pasto con i pochi crostacei che gli sono stati consegnati.
Poi cancella la sua esistenza, luminosa e piena di talenti, nel sangue.
Si suicida.
Raccontano che lui riteneva di aver perduto l’onore, un affronto che non sopportava.
Lasciamo perdere che il pesce poi arriva e che i festeggiamenti vanno avanti.
Il film, è vero, sarebbe potuto essere ben altro.
Ma restano senza paragone i gesti dell’attore, quando versa il vino, quando caramella la frutta, e come fai a riprodurre altrove una simile eleganza, la misura, la forza che si scioglie e diventa delicatezza.
La giustezza.
Sto lì e penso a quale attore italiano avrebbe potuto interpretare un ruolo analogo.
Mi viene in mente solo Ugo Tognazzi, che era un gran gourmet.
Ma al quale mancava le physique du rôle, che invece Depardieu ha e che utilizza in pieno.
Alto, forte, possente.
Se pure il cinema invecchia, il genio, no.
In Francia il mito di Vatel, un perfezionista che certo non pensava, come invece dice il proverbio, che il meglio fosse nemico del bene, resiste tenacemente.
Accanto alle poesie, agli omaggi e ai film, ecco un manifesto pubblicitario di Eugène Ogé, datato al 1910, che lo celebra.

Bouillon Vatel, 1910

François Vatel sarà presente in due Sorbetti: nell’op. 137, «Là dove in pieno giorno risplendono le stelle», dedicato ai suicidi; e nell’op. 147, il Sorbetto stellato, che si occuperà del fine dining, ovvero dell’alta cucina e dei processi creativi che la abitano.

Biglietto n° 79: Il macinapepe Bistro della Peugeot, 1874. L’ospite guarda con diffidenza la macchinetta e pensa che io stia attentando alla sua integrità, fisica e mentale.
Se dico «Prova!», mi guarda in tralice.
Eppure: «È la più antica, la più conosciuta, ma senza dubbio anche la più preziosa delle spezie…insostituibile. Come immaginare un piatto, un brodo, una marinata, una salsa, una vinaigrette senza pepe?».
E ancora.
«Re delle spezie…merce rara e costosa, giocava anche il ruolo di moneta, per pagare ammende e imposte e perfino riscatti…La terapeutica antica gli attribuiva proprietà toniche, eccitanti, stimolanti e febbrifughe, ma è al capitolo della gastronomia che esso ha rivelato poco a poco le sue virtù più eclatanti».
Questo è Alain Ducasse, uno degli chef più celebri e celebrati che si siano mai messi ai fornelli.

Alain Ducasse

Che lo affermi lui, non serve, figuriamoci se lo sostengo io.
L’italiano guarda il pepe come se fosse un demonio dal quale fuggire a gambe levate, vede la macchinetta e già si sente torcere le budella, immagina un futuro compromesso dall’esperienza di una volta, quella a casa mia, ormai fatto di pastina in brodo con lo stracchino sciolto nei giorni di festa e di mela grattugiata.
Ma fatemi il piacere.

Mignonnette Epices Roellinger

Ormai giro con in borsa una mignonnette di pepe nomade.
Fai ruotare il coperchio di metallo e compare il foro di uscita.
Capita anche che ci sia un audace che vuole provare, ma il più delle volte la reazione è quella dell’invasato davanti all’esorcista.
Fatti vostri.
E comunque a tavola da me c’è sempre in bella evidenza il macinapepe più famoso del mondo, protagonista del nostro biglietto di oggi.

L’avventura industriale della famiglia Peugeot inizia nel 1810, quando i due fratelli Jean Pierre e Jean Frédéric trasformano il mulino ereditato di Sous-Cratet, nel Doubs, Francia, in una fonderia d’acciaio.
Cominciano a produrre nastri fini e molle, dall’uso molteplice.
Nel 1840 arriva il primo macinacaffè.
Il simbolo del leone appare nel 1850 e allude alla qualità degli utensili: «resistenza dei denti, elasticità delle lame, rapidità del taglio».
Vi divertirà sapere che l’imperatrice Eugénie, di nascita spagnola, moglie di Napoleone III, indossava una crinolina Peugeot.
Ovvero portava sotto la gonna una gabbia di acciaio di fabbricazione Peugeot.

Ma a noi interessa il macinapepe, e quello che ci sta dentro.
Questa «piccola macchina da tavola e da cucina» vede la luce nel 1874 e all’inizio è in porcellana bianca.

Macinapepe Peugeot

Poi arrivano il metallo argentato, la bachelite, il legno e oggi c’è una scelta di colori che sembra non conoscere limiti.
Il modello Bistro è alto cm 10 ed è equipaggiato di un «meccanismo esclusivo e garantito a vita» che macina perfettamente pepe nero, bianco, rosso, verde, bacche rosa (se mescolate a un pepe) e grani di coriandolo.
La macinatura è regolabile attraverso il bottone che corona il design, classico, sobrio, funzionale.
Seguono altri modelli, altre taglie, tecnologie sempre più aggiornate, ma il capostipite rimane insuperato.
Sì, la Peugeot produce anche altro.
Quando andai a fare la jeune fille au pair in Francia, la nonna dei ragazzini che mi furono affidati dai genitori, che volevano andarsene in vacanza senza figli fra i piedi, si era portata da Parigi, noi eravamo in campagna in Savoia, un enorme Peugeot che troneggiava in cucina, con il quale faceva tutto, tagliava, frullava, scioglieva, centrifugava.
Mai imboccai la nipotina più piccola, nove mesi, con un omogenizzato, sempre pappette con la verdura dell’orto, passate nel Peugeot.
Sì, fanno anche macchine.
E c’è un bellissimo aneddoto, di cui è protagonista Jean Pierre III (1896-1966).

Negli anni ’30 l’industriale andò in America e visitò una fabbrica di automobili. Quando durante un grande banchetto gli fecero notare che lì tutto era Made in USA, lui impugnò il macinapepe e rispose: «Quasi tutto, salvo questo che è francese».
Poi lo girò e aggiunse: «e in più è Peugeot».

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