Dry January. Vedrete che fra un po’ metteranno i limiti di velocità sui circuiti di Formula Uno.
Sylvain Tesson, che è un avventuriero moderno, uno scrittore-viaggiatore che fa cose estreme, che scala tutto quello che è possibile scalare e che ha finito col riportare un brutto trauma cranico cadendo dal terzo piano mentre cercava di rientrare in casa arrampicandosi dall’esterno perché aveva dimenticato le chiavi, dice che presto saremo obbligati a camminare per la strada con un casco.
Del resto, basta vedere i bambini in bicicletta, pupetti di quattro anni con paragomiti, paraginocchi e paratesta, oltre a un numero di ruote pari a quattro, con appresso un genitore che si torce le mani per l’apprensione.
Se penso a come ho imparato io ad andare in bicicletta, finendo dritta dritta come da manuale in un fosso appena mi sono accorta che l’indimenticabile Gabriella Martinotti, che ha insegnato a intere generazioni di bambini a stare in sella, aveva lasciato la presa e io andavo da sola, se penso, dicevo, a come finivano regolarmente i miei primi tentativi di equilibrio, un po’ mi viene da ridere, un po’ mi viene compassione per questi piccoletti, che evidentemente si rompono più facilmente di quanto ci rompevamo noi.
E poi, c’era da aspettarselo.
Così come è arrivata la sigaretta elettronica, che avrebbero dovuto chiamare in un altro modo perché della sigaretta, ormai definita «controparte convenzionale» del vaporizzatore, essa non ha niente, così è arrivata una valanga, meglio, una cascata di bibite che rifanno il verso al vino, alla birra, al cocktail, ma che non sono né vino, né birra, né cocktail.
Perché il Dry January impazza e qualcosa bisogna pur avere nel bicchiere.
Inventato nel 2013 da un’inglese, Emily Robinson, che voleva ripulirsi per meglio allenarsi per una mezza maratona, il gennaio analcolico ha avuto il primo anno da quelle parti 4.000 adepti, che nel 2022 sono arrivati a 130.000.
Ci sono alcune cose che mi lasciano perplessa, per esempio mi interesserebbe sapere quale fosse il normale consumo di alcolici di queste persone.
Perché altrimenti non vale.
L’account Instagram della giornalista-scrittrice sul quale sto seguendo la vicenda, nel post dedicato in modo specifico alla celebrazione, ospita molti commenti.
Essi hanno alcune caratteristiche evidenti.
A commentare sono solo donne, come succede praticamente sempre con lei, che però non si occupa se non raramente di ginecologia o di assorbenti igienici, quindi non si capisce perché gli uomini latitino, soprattutto davanti a un argomento di questo genere.
A commentare sono nel 90% dei casi donne che non bevono, da sempre o da qualche anno, quindi il loro parere è pari al parere mio su una partita di tennis, per dirla con Montale, «murmure d’arnie».
Fra i commenti, tutti (tutte) praticamente mettono in evidenza il lato sociale dell’alcol e, di conseguenza, il timore di essere esclusi (escluse) dalla festa, che va dall’aperitivo al ristorante. Già che c’ero e indagavo, ho fatto uno screen shot di quella che diceva di avere smesso di bere nel giugno 2020 e che da allora le serate la annoiano al punto tale che non mangia nemmeno più.
(Ancora e sempre, la mia sensazione fissa che la vita sia un fiume troppo lungo e troppo tranquillo e che a questa lunghezza e a questa tranquillità ognuno cerchi di trovare la sua soluzione: l’alcol è una delle tante, di solito efficace, basta vedere che succede quando manca).
Al post su Instagram è seguita una Newsletter della medesima autrice, che ho stampato e che ho qui davanti.
Ci sono i link con una serie abbondante di aziende, negozi, viticoltori (ebbene, sì), cantine (cantine?) che propongono le loro bevande.
Tutte senza alcol, come quelle di questa foto che vi mostro (da Le Paon qui boit, di cui già vi ho parlato un’altra volta).
Il sito è completo di immagini, con gente che tiene in mano un calice e brinda facendo cin cin, osserva da intenditore un’etichetta, degusta, indica con competenza a un cliente una bottiglia.
Mia sensazione di stare davanti a una scena di bambine che giocano a fare le signore e che, da sole, con le sorelline o con le amichette, prendono un tè finto in tazzine finte, facendo finte chiacchiere.
Inoltre, se brindare con l’acqua notoriamente porta male e quindi non si fa, qui, come la mettiamo?
Ma la più bella è quella del «sobrelier», cioè del sommelier che ha deciso di non bere più alcol, divenendo sobrio.
Si chiama Benoît d’Onofrio e il suo account Instagram lo mostra senza eccezione alcuna, ovvero in tutti, dico tutti i suoi post, come il Jack Torrance di Shining.
Un po’ inquietante.
Poi è vero che, come dice lui, l’alcol ha un rapporto forte col patriarcato, che esso è percepito come una fonte di virilità e che nell’immaginario comune un uomo autentico deve saperlo reggere.
Tutto vero.
Ma sarà perché io non bevo Coca-Cola, né vera né Zero, né Schweppes, né Perrier (che ho comunque in frigorifero per ospiti in cerca di effervescenza), né succhi di questo o di quello, per non parlare di quanto non bevo le tisane, che mi fanno signorina che a letto ama stringersi più che altro la borsa calda, che comunque quando fa freddo mi stringo pure io, sarà che io bevo solo acqua, come dicono i francesi che sono cartesiani, quindi, geometrici e precisi, piatta, oppure una spremuta d’arancia senza alcuna aggiunta e poi, vino, sarà per queste mie abitudini, ma non concepisco tutta questa valanga, meglio, cascata di bevande spesso zuccherine e che sono, facendola breve, un succedaneo.
Al vino, alla birra, al cocktail.
Alla vita, mi viene il dubbio.
Anche una nota economica. Uno dei vantaggi che viene sempre messo in avanti dagli adepti del Dry January è il risparmio di non poco denaro.
Grazie tante.
Però sono andata a vedere e mi sono fatta due conti: una bottiglia di gin senza alcol costa € 32,95 e un French Bloom Le Rose, anch’esso 0,0%, € 34,00.
Cifre di tutto rispetto con le quali ti metti in tavola una bella bottiglia, estera o locale.
D’accordo, questo Romanée-Conti Grand Cru 2019 costa € 45.000,00.
Una cifra impensabile e improponibile per questo merlot désalcoolisé, che costa € 25,00.
Per ora. Ma vedrete che ci arriveremo.
Le bevande non mancano di appeal, etichette gioiose, nomi ben trovati, strizzate d’occhio di qua e di là, comunicazione accurata, come è bello il mondo che fa tornare gli adulti all’infanzia, spensierata e analcolica.
Perché nessuno mi toglie dalla testa che sotto sotto ci sia questa narrazione, l’offerta di un mondo disincarnato, dove è vietato farsi male e dove basta una bottiglia giocherellona per fornirsi immediatamente anche di paragomiti, di paraginocchi e pure di paratesta.
Contenti voi.
Noticina, 1. «Shaken not stirred».
Chissà che cosa pensa (penserebbe) l’unico, il vero, il solo James Bond di questa bella idea che si è fatta venire la Martini.
Aperitivi analcolici in vesti un po’ imbroglione.
Fosse stata la Coca-Cola, niente da dire, ma così mi viene subito in mente quella frase incresciosa che ti dice il professore a scuola quando lo hai deluso, spezzandogli il cuore: «Questo da te non me lo sarei mai aspettato».
Voglia di sprofondare.
Noticina, 2. Chissà che cosa pensa (penserebbe) di questa tendenza l’uomo che ha intrecciato la sua vita con i tralci di vite, usando tutte le metafore possibili legate alla vigna e iniziando e finendo la sua esistenza nel nome del vino.
L’esordio pubblico di Gesù Cristo avviene a Cana di Galilea, durante una festa di nozze, quando «la Madre…gli dice: “Non hanno più vino”».
Lui un po’ nicchia e dice che la sua ora non è ancora venuta, ma lei taglia corto e invita i servitori a fare quello che lui dirà.
«Empite di acqua le idrie…Ora attingete e portate al maestro di tavola».
E che trova il maestro di tavola nelle idrie?
Bravi: il vino, fra l’altro migliore di quello che era stato servito fino a quel momento.
Voi pensate alla medesima narrazione, Giovanni, 2, 1-11, ma con un liquido désalcolisé in quelle medesime idrie.
Anche in questo caso, meglio l’acqua piatta.
I miracoli possono attendere.
Biglietto n° 67: L’Inverno (o La Freddolosa) di Jean-Antoine Houdon, 1783. Brrr. Ma che freddo fa.
Come sappiamo, l’arte non è mai solo quello che sembra.
Dunque, quella che appare come una ragazza intirizzita è anche una piccola rivoluzione.
Perché lei rappresenta l’Inverno e la più dura delle stagioni per molto tempo è stata ritratta come una donna anziana e, in seguito, come un vegliardo barbuto.
Fino a che Etienne Maurice Falconet nel 1771 non ha realizzato per Caterina di Russia una sua versione dei mesi più gelidi dell’anno, che sono simboleggiati da una fanciulla seduta, drappeggiata e con un seno scoperto.
Ai suoi piedi, un vaso che il gelo ha rotto.
Houdon è più audace.
In seguito alla commissione del potente Anne Charles Modenx de Saint-Wast, consigliere e segretario del re, scolpisce una figura che ormai ha ben poco di allegorico: la spoglia completamente e lo scialle nel quale lei si avvolge la testa sta lì più per esaltare la delicatezza delle sue rotondità che per coprirla.
Questo spostamento verso la naturalezza che elude le istanze accademiche, quella che noi chiamiamo una trovata d’effetto è probabilmente alla base dell’incredibile successo che l’opera ha riscosso presso il pubblico di amatori della sua epoca.
Successo che si conferma da parte nostra.
Noi che viviamo oggi, infatti, non siamo insensibili alla sensualità di questa creatura, alla quale il marmo venato di blu restituisce quasi il calore della carne.
E ci piace pensare che nel vaso che è a terra, anch’esso rotto dal gelo e coperto dal medesimo drappo che copre lei e che le scende fra le gambe, ci sia dentro qualcosa di alcolico, che la scalda al posto, non dico di un cappotto, ma almeno di un paio di calzettine, di forse maliziose mutandine e della gonnella.
Cosicché la nostra Freddolosa può stare lì a battere i denti: comunque irresistibile, tenerissima, neoclassica fino al midollo.
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