Tempo di preparazione: 5 minuti
- Riempi il calice di ghiaccio
- Versa 3 parti di Prosecco D.O.C. (9cl)
- Aggiungi 2 parti di Aperol (6cl)
- Completa con una parte di Soda (3cl)
- Guarnisci con una fettina di arancia
Lei va da lui nel cuore della notte perché ha paura.
A proposito della stanza di lui, santa Teresa d’Avila parlerebbe del profumo della povertà.
Ma è una stanza pulita, lui dorme in un letto singolo e le apre la porta in pigiama.
Sulla carta, una situazione che più ospedaliera non si può.
Ma non sembra.
Lei si butta prona sul letto, non si toglie nemmeno le scarpe.
Lui le dice che sotto il letto c’è un altro materasso e lo tira fuori per sé, dunque dormono uno accanto all’altra ma ad altezze diverse, perché l’altro letto è più basso.
Poi vediamo che fanno l’amore.
Lui è un uomo molto prestante, supera il metro e novanta, non cambia espressione per tutto il film, però la sua faccia è un paesaggio di sentimenti, con un senso sfaccettato di disperazione, violenza, solitudine, necessità, bisogno, desiderio.
Lei è bella, non più come in Barbarella, dove era parecchio bambola, ma che bambola, come avrebbe detto Buscaglione.
Ma soprattutto lei è bravissima, la sua voce ha il suono di una campana di bronzo, lei fa un po’ la modella e un po’ l’attrice, ma parecchio si prostituisce ed è perseguitata da un maniaco che vuole ucciderla.
Lui è l’ispettore Klute, che indaga.
Il film in originale si chiama solo con il nome di lui, da noi è diventato Una squillo per l’ispettore Klute e fa parte della cosiddetta Trilogia della paranoia di Alan J. Pakula.
Dunque, una cosa moderna.
Siamo tutti paranoici.
E non venitemi a dire che non è vero.
Anche lei è povera.
Ha avuto un appartamento con i mobili in pelle a Park Avenue ma ora vive in un monolocale. Che a me è sembrato bellissimo, con tutto, tutto insieme, il frigorifero accanto alla cucina a gas ma anche poco distante dal letto, l’attaccapanni con abiti che evocano il palcoscenico e il fantastico, il lucernario sul tetto, dal quale la spia l’assassino.
Io non so come ho potuto non vedere questo film, dove avevo la testa.
È un film bellissimo, la fotografia, contrastata, la colonna sonora che irrompe a tratti.
E poi, oltre a lui e a lei, c’è New York, ma è la New York del 1971, mica quella che ho visto io l’ultima volta che ci sono andata, che mi è sembrata così scontata e banale e ho pensato che i film erano meglio.
E come dice la mia enciclopedia del cinema, quella seria, dedicata alla città, mica l’enciclopediola che non ne azzecca mai una, i film nei quali si parla di prostituzione mettono insieme dei ritratti: quelli psicologici di coloro che si danno al commercio carnale e quelli dei drammi quotidiani della condizione urbana.
«Non è dunque un caso che i più bei film sulla prostituzione siano anche quelli che parlano meglio della città».
Non si capisce perché uno debba andare al cinema a vedere un film nuovo, quando i film vecchi bastano e avanzano.
«È appunto una moda, si indossa durante la cerimonia per decoro, anche se il suo significato un tempo era tutt’altro… A maggior ragione, io sono laureato in ingegneria, e non c’entra niente».
La frase è insensata, anche a volerla completare con il mio commento davanti alla foto di un giovane uomo con una corona d’alloro in testa il giorno della laurea, fra l’altro triennale.
Non ti è venuto in mente che la corona spetti ai poeti, appunto, laureati, non ti rendi conto del ridicolo della situazione, non capisci che è solo una moda.
No, perché accade che la corona sia come la giacca, che si indossa, essa sì, per decoro.
Certi si mettono addirittura in testa il tocco, come il nipote di Pippo che ha otto lauree.
Si è persa la capacità di riflettere su quello che si fa e sul significato che assumono i simboli in certi contesti, sembra sempre Halloween, che se tu dici ma come ti viene in mente di travestirti fuori carnevale, quello ti risponde come Palazzeschi: lasciatemi divertire.
Sembra che gli vuoi rovinare la festa.
Se Camillo Langone fonda un partito, mi iscrivo e comincio a fare politica.
Ma se è un maschio maschilista, si definisce lui stesso così.
Perché ci sono maschi che non sono maschilisti. E poi, se ci sono i sedicenti uomini femministi, non capisco perché non possa esserci una donna maschilista.
Lui è conservatore; credente; cattivo, anzi, feroce; considera i sommelier «una setta di esaltati» e sospetto che abbia ragione; ha scoperto che a Bologna da almeno otto anni non nasce un bambino di nome Petronio; è capace di scrivere un intero capitolo dedicato alle Marche scandendo i paragrafi con le litanie, appunto, laureatane: Mater Christi, Mater purissima, Mater castissina, Mater admirabilis, Mater boni consilii, Virgo prudentissima, Sedes sapientiae, Causa nostrae laetitiae, Vas honorabile, Rosa mystica.
Eccetera.
Langone ce l’ha con lo spritz.
Ero incerta se prendergli in prestito per il mio titolo «Il nichilismo dello spritz» o quello che poi ho scelto.
Piaga è più efficace.
Poi, continuando a leggerlo, come niente trovo qualche altra trovata sapida e fulminante.
Quando feci un Erasmus a Digione, ricordo quanto mi presero in giro i colleghi della locale Ecole des Beaux-Arts quando mi venne la cattiva idea di parlare del kyr royal. Ora, se non capiscono di vino i francesi di Borgogna, abbiamo chiuso tutti.
E, infatti, ne capiscono, eccome.
Dunque, quando ebbero finito di ridere, mi spiegarono che il kyr royal viene servito ai polli che si bevono lo champagne cattivo, che, con quel sapore dolce del Cassis che fanno da loro, si confonde così bene.
Un po’ come il prosecco nell’Aperol, chissà che ci mettono dentro.
Ho preso il libro dei vini di Langone e pure quello è bellissimo.
C’è un intero capitolo dedicato all’Italia rosa, nel quale lui tesse l’elogio del vino rosato. E io una volta di più sono d’accordo, sono di quelli che lo bevono tutto l’anno, mica solo d’estate, e che si sono pure comprati i bicchieri adatti, che sembrano dei boccioli.
«…i vignaioli sono gli italiani migliori e i vignaioli del vino rosa sono ancora più simpatici. I rosatisti non la fanno mai cadere dall’alto, sono accessibili come i loro prezzi, di premi ne prendono pochi, ricevono lodi smisurate e spesso di tono paternalistico ossia contenenti l’aggettivo “beverino” (per tanta critica enologica il “piacevole a bersi” è una diminuzione, a tanti esperti piace soffrire e far soffrire il lettore)».
Tutti sistemati, chi produce e chi degusta.
A Padova, però, Langone, in piazza Duomo, ordina uno spritz: «…la bella cameriera porta al collo un piccolo rosario ad anello, di quelli da dieci avemarie. “Con Aperol o Campari?”. A Padova sarebbe giusto bere Aperol (qui nato nel 1919) ma io allo spritz arancione dolciastro preferisco lo spritz rosso amaro. Per accontentare sia il genius loci che il genius palati berrò doppio (non che mi costi grande fatica). “Adesso uno con l’Aperol e poi quando l’ho finito uno col Campari”. Passa un prete vestito da prete…».
Lui beve uno spritz doppio come nei film bevono un doppio whisky, anche se qualcuno sostiene che quest’ultimo è un bicchiere nel quale ci sono due whisky invecchiati in due diversi tipi di botti, non ci crederò mai, allora perché Loredana Berté canta al terzo doppio whisky gli gridai J’adore Venise, figuriamoci se per adorare Venezia non le bastava una tripla dose doppia, sai che gliene importava delle botti.
Poi Langone parla pure del Lambrusco, che potrebbe essere anch’esso un vino da definire rosa.
Perché preferisce rosa a rosato.
Il Lambrusco è frizzante.
Dunque, lui si domanda: «Ma il rosa frizzante non potrebbe essere la cura giusta alla piaga dello spritz?».
Vedi il titolo di questo post e vedi sopra.
Comunque, la cosa notevole è che Langone beve e che di quello che beve scrive che incanta.
Gilda Policastro è una poetessa.
Credo che lei si definisca poeta, e questa parola è declinata al femminile, ma a me non importa perché non solo non sono femminista, ma sono pure un’estimatrice della grammatica italiana, quindi continuo a rispettarla e ad applicarla.
In un post su un social, perché oggi i poeti stanno sui social come ci stanno tutti, lei cita D’Agostino quando riuscì per qualche secondo ad azzittire Carmelo Bene chiedendogli: «Se lei non esiste, perché si tinge i capelli?».
Non è facile, togliere la parola a uno che delle parole fa quello che vuole.
In rete c’è l’intera puntata di quel Maurizio Costanzo Show in cui il maestro pugliese, occhi accalamarati, pappagorgia e denti fasulli, per un paio d’ore intrattiene un pubblico reattivo e maltratta interlocutori che sono anche brillanti, ma che commettono, quasi tutti, l’errore di dargli spago.
Vi metto qui il link con la trasmissione, se date anche una sola occhiata, vi renderete conto di quanta acqua è passata sotto i ponti da quel 1994.
Pure D’Agostino non aveva ancora le dita delle mani tatuate.
Se devo usare solo un paio di parole per definire questo spettacolo, perché di spettacolo si tratta, scelgo: vita e intelligenza.
Da parte di tutti, anche di quelli, con l’esclusione di D’Agostino, che prendono una cantonata cercando di arginare un fiume in piena.
Quello che è giusto nel suo ruolo mi sembra Aroldo Tieri, attore immenso, che viene inquadrato spesso dalla telecamera, ma che chiede al collega solo una cosa sull’utilizzo a teatro del microfono.
Poi sorride, divertito.
Meglio di quelli di Halloween.
Carmelo Bene, che deve aver chiesto una dispensa, fuma sul palcoscenico.
Fuma nonostante viva utilizzando la voce.
Già allora, e oggi di più, fumare era ed è un atto di trasgressione.
E poi, come sia come non sia, io che non amo il teatro, con l’eccezione di quello lirico, da ragazza sono andata sempre e soltanto a vedere Carmelo Bene.
Vuoi vedere che ho fatto, e come sarebbe potuta andare diversamente, bene.
Il senso di questo post.
Un transito.
Un passaggio.
La constatazione di quanto è scemo lo spritz e di quanto è scema la televisione di oggi.
Immagino, perché non la vedo da un sacco di tempo, ma solo i commenti, 1.727 sotto il video che vi ho proposto, testimoniano della pienezza di un altro modo di stare al mondo.
Per non parlare di quanto sia completa la riflessione di Langone sullo spritz, che risucchia dentro tutto, la laurea triennale con la corona in testa, i film che si vedono al cinema in questi giorni, le città, pure quelle belle, stranite da che cosa ci è successo a tutti.
Con l’idea, fissa, che quindi è una fissazione e che mi sta benissimo, che però ci siano vie di uscita e scappatoie.
E che, casomai, con i dovuti aggiustamenti e nel giusto posto, tutto sia possibile: «Lo spritz in piazza del Duomo a Padova alle sette di sera è ordine e bellezza, lusso, calma e voluttà».
Come in Matisse che, sulla vita e sulle cose, per non parlare del lusso e della voluttà, la sapeva lunga.