Henri Matisse, L’atelier rose, 1911

La felicità di vivere.  Quattro incontri dedicati a Henri Matisse  2/4
lunedì 4 lunedì 11 lunedì 18 e lunedì 25 giugno 2018
ore 18:00 – 19:00
Saletta di via Gaspare Spontini 17 00198 Roma

Gli incontri sono importanti, lo sappiamo.
Quelli con una persona, con un animale, ma, direi, anche con un film o con un libro.
Qualche tempo fa, dunque, mi misi a leggere un romanzo, un’autobiografia di una giovane donna che raccontava, togliendosi la pelle, tutte le sue dipendenze: dalla cocaina in primo luogo; da un uomo più vecchio di lei di parecchi anni, un editore potente, coltivato, che l’avrebbe fatta soffrire molto, ma anche molto aiutata professionalmente; dalla moda e dal lusso.
Non ho mai avuto una relazione con un uomo molto potente e nei confronti della cocaina e della moda provavo, all’epoca, un sentimento di indifferenza che sconfinava nel fastidio.
Ma la narrazione era avvincente, la scrittura, magnifica e caddi come Alice nel buco (non so mai se per caso non fosse altro, per esempio la tana del coniglio) in quell’esistenza.
Decisi, così, di vedere se per caso non ci fosse qualcosa di interessante.
Mi procurai dunque i libri che lei citava accuratamente, e che indagavano la relazione fra moda e arte contemporanea.
Montai anche, qui a Roma e per la mia Associazione, il primo dei seminari che sarebbero andati tutti sotto al titolo Avere la stoffa: storie di arte, di tessuti e di talenti, un po’ quello che ho dato a questo articolo.
Il Direttore della mia Accademia, che, evidentemente, ogni tanto dava un’occhiata alle attività, chiamiamole, extracurricolari dei colleghi, mi convocò e mi disse: «Tu adesso vai a insegnare Storia della moda  a Fashion Design».
Io risposi: «Te lo togli dalla testa, io la storia della moda non la so per il semplice motivo che sono uno storico dell’arte e stiamo parlando di cose diverse».
Insistette e io comincia a trovare quel passaggio ad altro audace e avvincente.
Mi comprai una montagna di libri, mi misi a studiare e, dopo un primo corso riuscito comunque più che decente, ero in condizioni di gestire un bel po’ di argomenti. Lavorai sui bottoni, sui grandi sarti, sull’immagine, sui costumi del cinema, sulla leggenda.
E lavorai tantissimo sulle stoffe, scoprendo mondi meravigliosi, integrando tutto quello che avevo frequentato fino a quel momento con molto altro.
È stato così che ho insegnato Storia della moda in Accademia per otto anni, fino a che non ho pensato che fosse arrivato il tempo di tornare dalle mie parti.
(Fu anche un po’ come tornare dal fronte. Ma avevo fatto tesoro dell’esperienza)

Moltissimi artisti hanno una relazione profonda con le stoffe, le ritraggono, le citano, si vede che le amano. Basta pensare a quanto siano importanti, per esempio, gli abiti nella nostra esistenza, a quanto esprimono di noi, conservano ricordi, figuriamoci se per chi fa arte le cose non stanno ugualmente così, anzi, per chi fa arte, tutto è sempre più intenso.

Henri Matisse è nato nel 1869 in una famiglia di tessitori del nord della Francia. Comincia presto a raccogliere frammenti di stoffe, che porta sempre con sé in una specie di «bibliothèque de travail» e che copia e trasferisce nei suoi quadri.
Quando viaggia sistema le sue ricchezze nelle stanze d’albergo, che diventano dei paradisi.
Ha il tessile nel sangue, sa utilizzare spilli e modelli, per non parlare delle forbici, con le quali nella seconda parte della sua vita realizzerà quelle cose meravigliose che si chiamano gouaches decoupées  (definirle collage è riduttivo) e che manovra come un professionista.
Dei tessuti apprezza il peso, la consistenza, ne intuisce la tombée.
E di tessuti riempie i suoi dipinti.
L’artista va a Parigi per tempo, a 21 anni. È molto povero ma continua a raccogliere frammenti di tessuto, a costo di saltare qualche pasto.
Quando comincia a viaggiare, ne prende in Algeria, in Marocco, in Spagna. A Monaco di Baviera, nel 1910, rimane in contemplazione delle opere islamiche esposte nella straordinaria mostra Capolavori dell’arte musulmana.
(Ancora un incontro, stavolta con una mostra).
L’arte dell’Islam è antinaturalistica, confina con l’astrazione e al maestro deve essere molto piaciuto il suo decorativismo. Per Matisse tutto è decorazione, a rigore, anche Michelangelo ha decorato la Cappella Sistina.
Cadono con lui, e di botto, tutte le distinzioni fra arti maggiori e arti minori.
Il fatto è che bisogna avere il coraggio di osare. Il fatto è che in quella magica fase del boom tessile, 1880 – 1890, i tessitori, che pure erano illetterati, incolti, ma dotati di ardimento, avevano il gusto di produrre stoffe di un lusso eccezionale ed erano animati da un forte spirito di emulazione, nei giorni di riposo si frequentavano e esaminavano  nuovi tipi di montaggio.
E preparavano quattro volte l’anno nuovi campioni per il mercato parigino della moda.
Perché possiate farvi un’idea di come erano fatti i campionari, vi mostro una Carte de Nuances più recente, questa viene da Roubaix, nord della Francia, dove c’è uno squisito museo del tessile. E vi dico pure che io stessa sono riuscita a procurarmene alcune, tutte bellissime e datate dagli anni ’30 ai ’50 del ‘900, oggetti in sé tutti da studiare, che consentivano alla manifattura di mostrare il suo ingegno, occupando poco spazio e dando ai tessuti la possibilità di essere apprezzati e di viaggiare. Solo i nomi sono un capitolo a parte di fantasia e di grazia: Rêveuse (sognatrice); Grisette (la sartina); Flirt; Muscadin (tradotto in italiano con Moscardino, c’è anche una citazione ne La Bohème di Puccini, è praticamente un giovanotto con caratteristiche di cui parliamo un’altra volta); Omelette; Afternoon; Sauterelle (cavalletta: tutte, giustamente, sete verdi).
Ricordo l’incontro con i miei campionari, che sono andata a ripescare nella mia libreria per voi, come quello con un uomo che mi avesse aperto nuove finestre, tutte affacciate su paesaggi coloratissimi.

Henri Matisse, Pierre avec Bidouille, 1904

Henri Matisse, Natura morta con geranio, 1910

Henri Matisse, Nature morte au camaïeu bleu, 1905-6

 

 

 

 

 

 

In un giorno del 1903 Matisse è su un omnibus e vede da qualche parte sulla Rive Gauche un pezzo di stoffa appesa in un bric-à-brac.
Coup de foudre, un altro incontro. Si traduce con «innamoramento improvviso e travolgente», proprio come un colpo di fulmine.
La leggenda ci racconta che si trattava di una toile de Jouy, un tessuto di cotone stampato fabbricato a Jouy-en-Josas, di solito blu o rosa su fondo écru, con scene di pastori e floreali.
Quello era bianco e blu con arabeschi e cesti di fiori.
Diventa un talismano, un volano per il coraggio, spinge l’artista a assumersi dei rischi sempre più grandi.
Il tessuto, uno «stratagemma a geometria variabile», è morbido, quindi si adatta alla superficie che ricopre: diventa tovaglia nel ritratto da convalescente del figlio Pierre, pallido e magro, con il suo cavalluccio di legno Bidouille nel piccolo appartamento sul quai Saint-Michel;  va dal fondo al primo piano nella Natura morta con geranio, e sfida la profondità  (e anche la prospettiva) per materializzarsi sotto un’altra forma; satura di colore il dipinto nella Nature morte au camaïeu bleu, e gli oggetti sono nel medesimo tempo destabilizzati e ancorati attraverso e grazie a esso; ne L’atelier rose, che vi ho messo in apertura,  è appoggiato al paravento ed entra in tensione con il tappeto giallo e blu a motivi decorativi astratti che, in primo piano, è messo per obliquo, quindi, sta a indicare una praticabilità dello spazio.
Un quadro nel quadro, nel quadro. A dirla tutta.

Maria Grazia Chiuri per Dior, 2018-2019

Ho nostalgia della moda?
A volte. Come si ha nostalgia di un incontro importante, che non si sa se sia esaurito  o se riservi ancora delle sorprese.
Certo, un paio di giorni fa sono come scivolata nel buco (o era una tana? O c’era anche un coniglio?) vedendo le foto nella collection croisière disegnata da Maria Grazia Chiuri per Dior. Nelle Grandes Ècuries di Chantilly, luogo, come dice il nome, di alta tradizione equestre, sotto un cielo tempestoso, hanno sfilato le creazioni della stilista italiana: citazioni messicane mescolate con classicismo francese, memori del New Look, quindi, vita stretta e gonna ampia. Ma anche una ripresa della toile di Jouy, un po’ desueta, alla quale restituisce una nuova vita: declinata anche in termini radicali, bianco e nero, o capace di animare il denim, rieccola pronta a intraprendere un nuovo viaggio, simbolo fra i più eloquenti di una certa tradizione di Francia e, per noi, segnale di avvertimento: nella vita è importante avere la stoffa. Torno alla Treccani: «Qualità naturale, disposizione innata necessaria per svolgere con successo una determinata attività…: averenon averela s. del campionedello scrittore».  Anche in enologia, mondo che prende in prestito il suo vocabolario da tanti altri, succede che un vino abbia stoffa: « si dice che un vino ha stoffaha della s., quando, alla degustazione, rivela corpo, buona gradazione alcolica, equilibrio e classe».
Niente male, eh. La versione da calice di qualunque incontro indimenticabile.
La persona; l’animale; il film; il libro; l’abito; l’esperienza; la bottiglia.

L’artista, sopra e più di tutti gli altri.