Alla fine è successo.
Avrei voluto salutarla.
Avrei voluto ringraziarla.
Non ho potuto.
Lo faccio adesso, che viene a mancare uno dei punti fissi della mia esistenza.
Perché avevo detto che mi sarei portata la mia lavatrice nella tomba, e invece nella tomba la mia lavatrice c’è andata senza di me.
E sarà così anche viceversa.
Sono una sentimentale, dunque ci ho pianto.
E fra l’altro mi sono anche infilata in un tunnel di invenzioni, approssimazioni, narrazioni fantasiose; ho potuto dare un’occhiata a come è la visione della cucina secondo il design contemporaneo; ho conosciuto gente.
E sono diventata proprietaria di una lavatrice nuova, supertecnologica, superchic, supersleek che, però, non è ancora in mio possesso.
Adesso vi racconto, cercando di non piangere.
L’ultimo lavaggio è stato riservato simbolicamente al mio lenzuolo più bello.
Poi, basta.
È venuto il tecnico, ha lavorato, un’ora, ha chiamato il supervisore, mi ha detto che non capiva niente, mi ha detto che se fosse stato lì ancora un po’ a cercare il guasto, alla fine gli avrei dovuto versare una somma iperbolica, i tecnici specializzati costano più o meno quanto un primario che ti visita, d’accordo, intra moenia.
Meglio sarebbe stato portarla in laboratorio.
E sono venuti a prenderla e avevo visto giusto e la notte avevo dormito malissimo, inquieta.
Infatti erano tre bestie, fuoriuscite dalla Moldavia, due senza nemmeno il dono della parola, il terzo, il capo, che emetteva onomatopee e turpiloquio, grosso che faceva paura, un incrocio fra un orango e un rugbista della Nuova Zelanda, sapete quelli che fanno l’haka per salutare gli avversari.
E che ha avuto la cattiva idea di dire che del mio pavimento di ceramica, che si graffia, e per il quale avevo preparato dei teli di spugna, a lui non importava niente perché stava lavorando.
Semplicemente, me lo sono mangiato.
Grosso com’era, fuoriuscito dalla Moldavia, che già solo con il suo peso mi aveva mandato fuori registro la cerniera dello sportello di sinistra del sottolavello.
(Io, per tenere a bada il tedium vitae che mi perseguita, ogni volta che vedo un uomo, me lo immagino, diciamo, nell’intimità. È un giochino che ti fa passare il tempo, per esempio, nelle riunioni noiose, oppure quando il tempo è meglio che te lo prendi per tutto quello che ti serve. Con il bestione, ce n’era, di materiale per fantasticare).
Dopo essermi mangiata lui, mi sono mangiata il mio tecnico di riferimento, che me li aveva mandati e che ha provato a spiegare che loro si appoggiano a una ditta esterna di trasportatori e che non li conosceva.
Ho chiesto al tecnico se riferiva lui in ufficio o se voleva che chiamassi io.
Per carità.
Siete l’azienda più prestigiosa nella produzione di elettrodomestici, vedete di controllare chi mandate a casa dei clienti.
Nel frattempo l’orango non era riuscito a risistemare la lavastoviglie e lo sportello urtava il mobile e guardava come se fosse scesa dalla luna la brugola per la porta blindata, di cui andava aperta anche l’altra anta.
Gli ho spiegato come si faceva.
Ormai scodinzolava, mansueto o quasi.
Ma dove sta la Moldavia.
E soprattutto, perché non ci torni.
Mi sono portata avanti con il lavoro, ho preso appunti, ho detto prima vediamo se possiamo ripararla, però nel frattempo mi informo.
Il tecnico ha dichiarato che non facevano più lavatrici da incasso.
E dove mette la gente la lavatrice.
Adesso hanno tutti il locale lavanderia.
L’unica persona che conosco io che ha il locale lavanderia ha una casa di 500 mq, di costo proporzionato alla bellezza.
Conosco poi gente che vive in 30 mq, alcuni in 60, io in 80, ma, a parte che la casa è fatta, il locale lavanderia non saprei dove metterlo.
Prima mi è venuto in soccorso il mio falegname, che è uno educato, elegante, di grazia fisica e che mi ha sempre cavato d’impiccio.
Secondo lui, e pure secondo me, lo spazio per mettere una lavatrice nuova al posto di quella vecchia c’era tutto. Metro alla mano, togliendo la cornice, che serve solo a rifinire il piano, guadagniamo altri tre centimetri.
Dunque, entra anche una lavatrice a libera installazione.
Fermo restando che c’è tutta una produzione di lavatrici a libera installazione cui è possibile togliere il top.
(Anche la mia, di cui nel frattempo il tecnico, stupefatto, mi aveva comunicato la data di acquisto, che io avevo dimenticato, era così).
Mentre dal laboratorio in cui è stata portata la mia lavatrice, che io immagino come una morgue, con lei sventrata, con i tecnici che le stanno intorno, cominciano ad arrivare notizie, faccio l’esperienza di telefonare a un posto dal quale mi arrivano mail da un po’ di tempo, e che Experience si chiama.
Voi sapete quando uno decide di sposarsi perché ha (o pensa di avere) trovato la persona giusta.
Nello stesso modo, parlo col direttore al telefono, gli spiego il caso, gli dico che vorrei evitare di cambiare marca, che non voglio finire nel girone dei negozi di elettronica che vendono tutto, che non voglio in casa mia una lavatrice usa e getta.
Gli dico quello che voglio.
Se devo fare questo passo, voglio che il passo abbia senso.
La metropolitana è vuota.
Fa freddo ma c’è il sole.
Mi sono truccata, vestita, è la terza volta da che c’è la pandemia che vado in centro.
Non calcolo che vado tutte le settimane nella mia edicola a via Veneto a comprare la mia rivista perché ci vado in macchina, chiusa e protetta.
L’Experience è una specie di show room di quelli che vendono macchine di lusso.
Aria, luce, eleganza.
Il direttore mi viene incontro.
Mi riconosce.
Benvenuta, ho già trovato la sua nuova lavatrice ma prima vorrei mostrarle tutta la nostra tecnologia.
È simpatico, non è romano, ha fatto una carriera strepitosa in dieci anni.
È molto bravo.
Gli piace raccontarmi come sono le lavatrici top di gamma.
Che secondo me fanno cose del tutto inutili.
Gli piace mostrarmi le loro cucine. Alcune di esse mi fanno orrore: nere, con la superficie ondulata come il cartone, senza nemmeno l’ombra di una maniglia.
Io che amo il bianco, le superfici lisce e facili da pulire e che apprezzo le maniglie, vedo solo confermato un mio assiduo retropensiero: gli architetti, e con loro e per loro i designer, non capiscono niente.
Questo fatto che tu devi aprire uno sportello facendo pressione perché non ci devono essere elementi, sottolineo, funzionali e non decorativi, a interromperne la continuità, mi sembra un delirio.
Anche perché poi ti vai a imbrogliare in mille altri risvolti, interstizi, questa cosa della superficie nera ondulata mi sembra esemplare, ma quanto sporco ci si annida sopra e come fai a levarlo.
I frigoriferi, poi.
Spero che il mio, della medesima marca, non mi si rompa mai.
Sono degli armadi a quattro ante, giganteschi, con la zona freezer buona per contenere un cadavere, fatto a pezzi, d’accordo.
Forni a vapore.
Cucine a isola, nere pure loro.
Mi dice che fanno serate con i clienti con lo chef che cucina e che mi invita.
Passo mentalmente in rassegna il mio guardaroba, mi dico che non ho niente da mettermi.
Le lavastoviglie sono quasi normali. Da incasso. E dentro ci si mettono i piatti.
Grandissima notizia, quella dell’aspirapolvere di prezzo democratico, che funziona alla grande.
Non vedo l’ora che si rompa il mio, che è di un’altra marca.
Hanno pure i sacchetti.
E gli accessori.
Così come hanno i detersivi, per tutto.
Hai capito. Come ho fatto a vivere finora senza questa Experience.
Bravo, è bravo.
Mi offre un caffè.
(Tale e quale a Mediaworld e a Trony).
No, grazie.
Mi fa accomodare a un grande tavolo di cristallo.
Nella mattina limpida e fredda, con le vetrine che aprono su Roma mia bella, mi mostra sul catalogo la mia nuova lavatrice.
È lei, non ci sono dubbi.
Dico che telefono un momento in ufficio per sapere se dal laboratorio ci sono notizie.
Intanto mi hanno già comunicato il costo del pezzo guasto, che è impronunciabile.
E ci devi aggiungere la mano d’opera.
E da cinque giorni stanno aspettando di sapere dalla casa madre a Bolzano se è ancora disponibile in qualche magazzino, perché da catalogo non si trova.
Dico lasciate perdere, dico mi sto comprando la lavatrice nuova, dico che è della medesima marca, per cui continuo a essere vostra cliente.
Mi dicono che devo dare l’autorizzazione alla rottamazione.
La do, il cuore stretto, le lacrime in gola.
Senso della casa calda, morbida e accogliente, rifugio, porto d’attracco, sicurezza, bianco della cucina, cucina come luogo del cibo e dei discorsi, delle bottiglie di vino e degli approcci al momento dell’aperitivo, degli attacchi e dei distacchi, cucina con i progetti, il quotidiano, le rotture, le disgrazie, il vecchio tavolo di marmo della cucina dove c’è la vasca dei pesci rossi e dove mi capita di continuo di scrivere qualcosa da qualche parte.
Sul lato sinistro, da dieci giorni sequenza interrotta degli elettrodomestici, ho usato il vano vuoto per metterci il mio sgabello prediletto quando non lo uso, sono rientrata e ci ho anche messo la cartelletta sciccosissima con tutte le carte, che non ho nemmeno guardato perché ho bisogno di tempo perché sono un’abitudinaria e ho bisogno di tempo per abituarmi al nuovo.
La nuova lavatrice mi sarà consegnata, volendo stare con i piedi per terra, giovedì prossimo.
E mi ha detto il falegname di non preoccuparmi.
Qualunque problema, interviene lui.
(Manco per tutte le macchine che ho cambiato sono stata così male, la Cinquecento blu, blu pure la Polo. Chissà che legame c’era fra me e la mia lavatrice, chissà che cosa significa questo dispiacere).