Quel che va bene non risiede nel veloce o nel lento ma nel giusto mezzo
(Aristotele, «Retorica», ma anche e soprattutto Francesca Rigotti, «La filosofia in cucina», 1999)
È il trentaduesimo piercing che si era fatto in faccia una mia studentessa. Trentadue buchi in faccia.
Allora intervenni, anche se di solito mi faccio i fatti miei.
Lei già mi aveva detto che aveva problemi in famiglia (e chi non ne ha).
Le chiesi se aveva voglia di parlare di come si stava conciando, le dissi che i buchi non si chiudevano e che, almeno, questo avrebbe dovuto saperlo.
È l’ennesimo tatuaggio, al punto che non hai più un centimetro di pelle libera, manco fossi il carcerato che deve stare dentro fino alla fine dei suoi giorni o il marinaio, inchiavardato all’albero della sua nave, che poi, nella sostanza, è la medesima condanna.
Sono i seni della sesta misura chiesti al chirurgo, perché quelli della quarta, che già sono ingombranti, sembrano piccoli.
È il pene ingrossato, ancora una volta chirurgicamente, fino a comprometterne la funzionalità.
È l’ennesima iniezione in viso o in bocca, per la quale non sai se mettere la camicia di forza alla paziente o mettere al gabbio chi gliel’ha fatta, cancellandole i lineamenti e riducendo una donna che aveva avuto bellezza e sensualità a una zampogna quando il montanaro ci soffia dentro.
È il tiramisù, il dolce più idiota che ci sia sulla faccia della terra, lo sa fare anche un impedito culinario ed è soprattutto il responsabile della scomparsa dai frigoriferi dei supermercati delle vaschette piccole di mascarpone: che da solo è buonissimo e che la mia compagna di banco delle elementari mangiava a ricreazione messo dentro la rosetta, stando sazia fino all’ora di pranzo.
Se vuoi comprare il mascarpone, oggi ti devi accollare il mezzo chilo abbondante.
È il Montblanc, al quale non bastano le castagne, che già riempiono, ma che deve ornarsi pure delle meringhe e della panna.
È l’ottavo matrimonio della diva, come se un matrimonio da solo non bastasse per farti capire che aria ci tira dentro.
È la Nutella mangiata oltre la pubertà, che per i maschi arriva in media a undici anni e mezzo.
Primo segno: l’ingrossamento dei testicoli. Segnale che significa alcune cose molto chiare, per esempio che quel barattolo con quella roba dentro, molle e vischiosa, lo devi mettere da parte e prepararti, nel giro di qualche tempo, a mordere una tavoletta di cioccolato autentico e fondente, casomai direttamente dalla bocca di una donna.
È il troppo che stroppia, è il limite superato.
È il pesante, l’indigeribile, l’eccesso.
È la lasagna.
Una sera che stavo in cerca di distrazioni ho digitato sulla barra di Google una frase non del tutto gentile nella quale compariva la parola lasagna.
Apriti cielo.
Mi si è aperto pure un sito in cui un mucchio di nullafacenti, più o meno al mio livello, ma per me era una condizione contingente, per loro, universale, insomma un bel mucchio di gente si sfogava a proposito di ciò che detestava.
L’imbeccata veniva da una signorina che si presentava argutamente come Anonimo.
Maiuscolo e al maschile. Insomma, non era una di quelle che peroravano la sindaca e l’architetta, oppure gli asterischi al posto della declinazione indeclinabile.
Anonimo non apprezzava quel piatto della tradizione italiana, diffuso in particolare in un paio di regioni, di cui stiamo ragionando.
Raccontava il senso di isolamento che l’avvolgeva in certi giorni di festa, l’orrore che provava di fronte a quella materia molle, grassa, alla farcia che colava unto da tutte le parti.
Si schierava dalla sua parte la vegetariana, per via delle polpette.
La consolava l’interlocutore di buona volontà e le chiedeva quale fosse il punto nevralgico, forse l’accostamento ragù/besciamella.
(Questo è anche il mio sospetto).
Poi c’era quello che incensava la crosticina dell’angolo, che però è il contrario della lasagna, visto che è secca e croccante.
Quello che tesseva l’elogio della teglia che confezionava la sua compagna e ti sorgeva il dubbio che ci stesse insieme principalmente per motivi utilitaristici, tipo vedersi servire a tavola ghiottonerie di quella e di altre specie diverse.
Si univano al coro: quello che detestava la salvia, che la trovava dappertutto (davvero, strano); quello che non beveva caffè e veniva sempre guardato come un traditore della Patria (lo capisco, nemmeno io bevo caffè e certe volte mi sento in imbarazzo); quello che chiosava e a noi che ce ne importa, disattendendo tutta la missione del sito, che era appunto quella di consentire agli utenti di sfogarsi di cose di cui al mondo interessa poco o niente.
Non mancava lo spiritoso, che faceva un uso smodato del turpiloquio e che dava i soliti suggerimenti di orientamento sessuale relativi a tipi di cibo che richiamano alla mente altro.
Tutti mediamente ignoranti, con frequenti errori di ortografia e di punteggiatura.
Tutti, nella sostanza, indifesi e teneri.
C’era pure quello che non ama un noto cantante e non può dirlo perché poi «la setta di Vasco» gli si rivolta contro. Uno lì si chiede come mai tutti i sostenitori abitino nello stesso paese dal quale scrive lui.
Che si chiama Anonimo, tale e quale a quella che ha dato inizio alle danze, come si chiama Anonimo pure quello del caffè.
Con il risultato che essendo tutti non identificabili, non si capisce più niente dello scambio.
Comunque, dopo quella sera mi sento meno sola.
Io non ce l’ho con la lasagna napoletana.
Anche se non rientra nel mio orizzonte gastronomico, capisco che la tradizione da quelle parti preme.
Però si potrebbe evitare di metterci dentro pure le polpettine fritte, nel senso che già il ragù di Napoli deve pippiare, ovvero «cuocere a lungo, sbuffare, sobbollire finché avrà raggiunto la giusta intensità di sapore» (minimo quattro ore. Io faccio il mio peraltro ottimo sugo pomodoro e basilico in quindici minuti) e tale ragù renderebbe già regale un bel piatto di tagliatelle.
No, perché poi le tagliatelle farebbero Bologna e non Partenope e dove va a finire l’orgoglio cittadino.
E la lasagna a Napoli ci deve stare.
E, come se ragù e polpettine ti lasciassero un certo languore nello stomaco, bisogna aggiungere anche uova, salame, ricotta e fiordilatte.
Basilico, e vorrei vedere.
In origine la lasagna era preparata per il carnevale, ovvero per e in una situazione di trasgressione ed eccesso (proprio quello che sto dicendo).
Poi ha tracimato e ora che è carnevale tutto l’anno, essa ha inondato la Pasqua e le altre domeniche del calendario.
Comunque, Napoli non si tocca.
Si tocca invece la lasagna che la signora Anna della lavanderia prepara per i figli con tutti ingredienti industriali e precotti.
Le ho chiesto che senso aveva e perché non proponeva qualcosa di più autentico, per esempio un bel piatto di pastasciutta.
Credo che sotto ci sia il desiderio di fare passare dalla cucina un amore incommensurabile, se poi sa un po’ di stucco, e chi se ne accorge.
Si tocca la lasagna della tavola calda e pure quella del baretto della pausa pranzo.
A questo proposito, sempre in uno stato d’animo sfaccendato, ho trovato la narrazione del poveretto che mangiandola si era sentito male di brutto.
Questo su un altro sito di quelli che andrebbero chiusi, dove la gente dà sfogo ai suoi pensieri più intimi, voglio suicidarmi, mia moglie mi ha lasciato, sono stato licenziato, e i tuoi interlocutori ti danno risposte che non c’entrano niente: prega, la vita è bella, vedrai che tutto si sistema.
Pure lì l’aggressività abbondava, proprio come il condimento.
Di che ti lamenti, io a pranzo mangio yogurt e insalata, ben ti sta, così impari a ingozzarti come un maiale quando poi devi tornare al lavoro.
Un commento con un refuso è stato capace di farmi ridere per una buona mezz’ora: «farciture abbastanza pensanti».
Io le «farciture pensanti» le trovo fantastiche, anche se sono tali solo abbastanza, ovvero se esse, le farciture, non è che pensino a sufficienza.
In passato, e dico agli esordi di questo blog, mi ero divertita a identificare uomini e tipi di pasta.
Come si fa con le edizioni successive di qualunque pubblicazione, ho rivisto tutto.
Ho cambiato, letteralmente, solo una virgola, nel senso che l’ho eliminata.
Il resto lo confermo.
Lì già facevo accenno alla lasagna, ma non le attribuivo nessuna categoria di supporto.
Da allora sono passati tre anni, non posso dire di essere cresciuta perché già ero bella adulta.
Direi però che ci ho pensato ulteriormente e che l’esperienza fa sempre tanto.
Dunque, l’Uomo-lasagna è quello troppo.
Per esempio, è il tipo alto, secco e senza capelli, un pennellone, come lo avrebbe definito il mio garagista, che, volendosi sfiziare dopo quindici anni di vita matrimoniale, ovvero avendo conosciuto (finalmente) molte donne, dichiarò in pubblico di non sapere scegliere perché aveva «messo troppa carne al fuoco».
E lo disse tutto soddisfatto e quando gli fecero notare la volgarità di quella dichiarazione, ci pensò un attimo e disse che gli era venuta così.
È il noto politico francese destinato a una brillante carriera e finito nella polvere, se non nel letamaio, a causa delle conquiste femminili (un altro!) rispetto alle quali aveva «problemi di stoccaggio».
È quello che dopo cena, quando già sono partite due bottiglie di vino, alle tre del mattino vuole una birretta per rinfrescarsi.
È quello che si veste di rosso, di turchino e di giallo e, visto che è il nipote di un noto elegante, non si capisce come possa aver derazzato così pesantemente.
Insomma, è colui che incarna bene da solo il concetto, e qui mi ha passato un assist il sito degli insensibili, della «farcitura abbastanza pensante».
Nel senso che, di sicuro, lui è un uomo farcito. Ma bisogna vedere di quali idee e di quale sostanza. E se, con tutta quella farcitura, riesce anche a essere un essere pensante.
E innalzo qui ancora un inno e intreccio un panegirico e tesso l’elogio a e dell’Uomo-spaghetti: che indossa colori virili, apprezza il calcio, parcheggia bene la macchina, sa maneggiare una bottiglia e, come dice il mio galateo-bibbia degli anni ’50, «non si scamicia in campagna, non impazza sulle spiagge, balla ma non alla perfezione e mai la samba».
Quando si dice avere il senso della formula.
Avere la capacità di definire un uomo vero, un autentico maschio.
Post scriptum, 1. La mia studentessa dell’esordio si è innamorata di uno che mi sembra plausibile, sta un po’ meglio, si è tolta i piercing e contempla come se fossero consigli capaci di dare il giusto ammonimento i trentadue buchi che le sono rimasti in faccia.
Post scriptum, 2. «Lo mangiai e fu in bocca come il miele».
Ezechiele nella Bibbia, ancora citato da Francesca Rigotti.
Difficile, se non impossibile, che si possa dire lo stesso della lasagna.