troppa g., sant’Antonio!, a proposito di beneficio che, concesso in misura eccessiva, finisce con l’esser molesto
Treccani
Quella di Proust, che lo servì dal 1913 alla morte, nel 1922, racconta le sue notti: attendeva il padrone, che cenava in città.
Al ritorno, lui la chiamava nella sua stanza per farle il racconto della serata.
Lui si sedeva all’angolo in fondo al letto; lei rimaneva in piedi di fronte a lui.
E tutto cominciava.
I due passavano le notti così, con lui che raccontava e lei che ascoltava.
Poi lei dormiva dalle sei del mattino a mezzogiorno. Lo stesso faceva lui.
Dopo questi anni fuori del comune, lei racconta di aver fatto fatica a confrontarsi con le banalità della vita.
L’esistenza dei domestici era modellata su quella dei padroni.
Uno chef de cuisine di Napoleone era incaricato dell’«en cas» dell’imperatore.
L’«en cas» era un pollo ben arrostito che l’imperatore avrebbe potuto chiedere a qualunque ora del giorno e della notte.
L’uomo, che si chiamava Gallyot, ha dormito dieci anni su una sedia, completamente vestito, sorvegliando il pollo e il suo spiedo.
Dopo dieci anni, egli non poté più stendersi a letto, soffocava.
Il fatto che il personale di servizio sia incarnato crea problemi ai padroni.
Ci sono gli odori, primo fra tutti quello del sudore; ci sono le malattie; ci sono i microbi che i servi portano in casa.
C’è la possibilità che un corpo sia fecondo e che una bonne abbia il cattivo gusto di rimanere incinta.
In una famiglia onesta, questo fatto è perturbante.
Soprattutto se la bonne è incinta del padrone.
Come mi succede spesso, e credo che capiti a tutti, le cose si incastrano una dentro l’altra, si danno un senso fra loro, a un certo punto costituiscono una tematica, un periodo di tempo, dando il loro colore a una stagione della mia vita.
Ce l’ho con il personale di servizio, certo, del resto devi occupartene se non vuoi che la casa diventi un problema.
Perché la casa non diventi un problema, i servizi vanno organizzati, devi fare un investimento, cercare accordi, trovare il giusto ritmo.
Sto leggendo un delizioso libro di uno storico (io non uso il termine storica se una donna si occupa di storia, non lo uso per me e nemmeno per altre donne e se le altre donne si risentono, fatti loro) che si chiama Anna Martin-Fugier e che si intitola La place des bonnes. La domesticité féminine à Paris en 1900.
Il libro è molto documentato e nello stesso tempo parecchio letterario, colmo di aneddoti, narrazioni, riflessioni.
La bonne è la serva, è inutile che ci giriamo intorno.
E non c’è donna che almeno una volta in vita sua non sia sbottata dicendo: «Non sono la tua serva».
Dunque non c’è donna che possa non situarsi in rapporto alla ripartizione simbolica dei ruoli così come è stata stabilita nel XIX secolo: «alla contaminazione e alla purezza, allo sporco e al pulito, all’incarnazione e all’idealizzazione, al godimento e alla frustrazione».
Bien mieux que dans la chambre, je t’aime dans la cuisine
Rien n’est plus beau que les mains d’une femme dans la farine
Molto più che in camera, ti amo nella cucina
Niente è più bello delle mani di una donna nella farina
Canzone poetica, che la dice lunga anche sulle implicazioni erotiche che ci sono nello sporco e nel pulire.
In passato i ruoli fra la serva e la padrona di casa erano molto ben ripartiti: da una parte la scopa, i pasti, la baise, parola che traduco con il letto ma che ha una connotazione ben più precisa e diretta. Insomma, tutto ciò che era ripugnante e di cui era incaricata la bonne, che era incarnata.
Dall’altra, la donna borghese, che doveva rimanere verginale, riservando a sé la rappresentazione mondana e morale.
«Oggi che la serva non esiste più e che la padrona di casa è diventata anche lei une bonne, bisognava che cambiasse la connotazione sporcizia-sesso-impurità».
Ed è vero che oggi la scopa, i pasti, la baise non sono più ripugnanti ma esaltanti.
E che devono colmare.
Il tema del vuoto e del pieno nelle donne mi sta a cuore, esse hanno una cavità, fisica ma anche simbolica, che va riempita.
Bisogna vedere come.
Lo storico Anne Martin-Fugier sostiene che in ogni donna abita una serva.
Ma aggiunge anche che in ogni donna abita una madre, una padrona di casa, una balia, una domestica, una bambinaia, una governante, una cuoca, un’innamorata e una cortigiana.
A me questo elenco sembra affettuoso e pieno di lati buoni.
Non mi fa paura avere in me la padrona di casa e la cortigiana.
Però io devo aggiungere che ho una professione che mi salva da tutto, pure perché mi aiuta a leggere quello che di simbolico c’è nelle cose.
E il mio lato casalingo mi sta a cuore, a me piace stare in una casa pulita e quanto più possibile ordinata, anche se casa mia ordinata non è mai, visto che ci lavoro dentro e che il lavoro me lo porto in giro per tutte le stanze.
Dunque, non concordo con lo storico Anne Martin-Fugier quando dice che bisogna andare alla scoperta dei propri fantasmi per poi congedarli.
Io, i miei fantasmi, me li tengo stretti e non li congedo per niente.
Anzi, da un po’ ho preso gusto anche a cucinare, seppure moderatamente.
Diciamo che mi sono almeno attrezzata con libri e utensili.
Se poi mi viene pure l’istinto materno, sentimento di cui sono priva da sempre ma che esce fuori, nemmeno troppo inaspettatamente, nei confronti degli uomini e degli animali, finisce che mi accorgo che mi piacciono i bambini e che ho sbagliato tutto.
E allora non voglio nemmeno pensare a come mi sento.
Il film è bellissimo.
Avevo letto una recensione tempo fa e ho comprato il dvd quando me lo sono trovato davanti.
Non solo. Conservo i numeri della mia rivista di cinema, che è una meraviglia, e ho impiegato davvero poco a fare una ricerca in internet e a trovare quello che mi serviva.
Les Femmes du 6ème étage sono Le donne del 6° piano, ovvero le serve che occupano le stanze loro dedicate in un immobile alto-borghese.
La vicenda si situa nella Parigi del 1962, in una Francia di cui è presidente il generale De Gaulle, con una presenza massiccia della Spagna di Franco.
La prima cosa che incanta è la ricostruzione storica: abiti, accessori, stoviglie, giornali, ambienti domestici, automobili, perfino il negozio del parrucchiere con i caschi.
Poi, il protagonista. Un grand bourgeois, Fabrice Luchini, nato e cresciuto nel palazzo in cui erano nati e cresciuti il padre e il nonno, con i quali condivide anche la professione, che vediamo confuso quando viene a conoscenza della comunità di donne spagnole che abitano qualche piano sopra la sua testa, in stanze piccole (chambres de bonnes, appunto) senza servizi e senza nemmeno l’acqua, con un gabinetto intasato e una latinità musicale ed esplosiva.
Inizia un gioco di andata e ritorno fra il piano nobile e quello in alto, anche grazie a Maria, spagnola incantevole che entra a servizio nella casa alto-borghese.
La sequenza di lei che il primo giorno vuole fare bella figura e chiama in aiuto tutte le conterranee è degna di un cartone animato: uno quelle fate vorrebbe averle in casa e trovare tutto a posto quando rientra.
Monsieur Joubert prima fa riparare il gabinetto, poi aiuta le donne con piccoli favori individuali, dalla telefonata a casa, in Spagna, a un nuovo posto come portinaia, fino a consigli di investimento dei risparmi, tenuti, quelli che non sono mandati ai parenti, in una scatola da scarpe.
La storia è poetica, finissima, delicata, affatto retorica, percorsa dal desiderio di lui: per una vita libera da obblighi morali e sociali; per Maria.
Il regista è un «piccolo artificiere sentimentale» e con lui i sentimenti sono tutti scavati e riportati alla luce.
Altro che i fantasmi delle donne.
Un malinteso con la moglie libererà il nostro uomo dalla famiglia. Lui andrà a occupare una chambre de bonne, finalmente felice di avere uno spazio tutto per sé, come mai prima gli era accaduto, fra case, collegio e servizio militare.
Nel film sono aperte e bevute fantastiche bottiglie.
Tre anni dopo, grazie a un viaggio in Spagna alla ricerca di Maria, che nel frattempo è tornata dalle sue parti, lui con una bella spider, divorziato, libero, lei con fra le braccia una bagnarola piena di panni da stendere, i due si ritroveranno.
E l’ultima inquadratura ci incanta, sospesi come siamo fra la dolcezza dell’utopia e l’amarezza della commedia sociale.
Seguire il canto delle sirene, sempre.
Soprattutto di quelle che abitano, fosse pure con il gabinetto intasato, sopra la nostra testa, a un qualunque e personale piano sesto.
Allora quando, quando è cominciata l’inversione di rotta, quando è che la bonne è diventata colf, ha smesso di preparare per la colazione l’uovo à la coque da tre minuti e mezzo, passare il lucido alle scarpe, apparecchiare, pulire le verdure, servire a tavola, dare la merenda ai bambini, lavare i piatti della cena, preparare il vassoio della prima colazione di Madame.
Quando, quando ha cominciato la colf a sedersi e a prendere il caffè preparato dalla padrona di casa e, soprattutto, quando si è contagiata con il vero morbo dei nostri tempi, quel narcisismo che ti mette al centro del mondo e ti obbliga a parlare solo e continuamente di te stesso.
Sappiamo che i replicanti sviluppano dei sentimenti.
Non sempre accade agli uomini, che però seguono una loro logica.
Ma non sempre accade alle colf e questa cosa non riesco a spiegarmela.
Chiunque venga a fare le pulizie in casa si porta dietro la sua storia personale, e questo è anche normale. Non è più del tutto normale che la storia personale sia talmente ingombrante da affollare tutti i discorsi, per cui bisogna far filtrare le informazioni relative al lavoro da svolgere, i vetri sono sporchi, i detersivi vanno riordinati a seconda dell’uso, fra le maglie strette della rete delle confidenze.
Sempre a senso unico.
Insomma, i sentimenti sono dedicati solo a se stessi.
Dunque, una valanga di: liti di famiglia; fratelli che si scannano per un rudere in campagna alla morte del genitore; tomba del genitore che nessuno accudisce; matrimoni; prime comunioni; Natale, Pasqua, compleanni; analisi cliniche, anche per scoprire le allergie; allergie scoperte, dunque l’uovo non si mangia; pressione alta, ma pure bassa è un guaio; liti condominiali; traffico; fisime; fissazioni; ubbie; nevrosi da reparto psichiatrico; scarpe che fanno male; alluce valgo; parrucchieri sempre insoddisfacenti; acquisti continui sulle bancarelle, ma è tutto made in Italy, pare vero; chili di troppo; cognate, nemmeno a parlarne; pranzi, cene, peccati ripetuti, sempre di gola; vacanze; ferie; mancati saluti; saluti in eccesso.
Da quanto elencato si capisce che molto mi piacerebbe avere in casa un robot che si occupasse delle pulizie.
Non uno di quei dispositivi che ruotano sul pavimento facendo finta di tirare su la polvere, ma proprio un essere meccanico dotato di intelligenza artificiale e di arti capaci di impugnare il tubo dell’aspirapolvere e gli stracci, in sintesi un «apparato meccanico ed elettronico programmabile, impiegato nell’industria, in sostituzione dell’uomo, per eseguire automaticamente e autonomamente lavorazioni e operazioni ripetitive, o complesse, pesanti e pericolose».
E poi perché solo nell’industria, la casa non è altrettanto importante?
Un bell’apparato meccanico ed elettronico senza parenti, senza mal di testa, paturnie o attacchi di ansia, educato, cortese, silenzioso, efficiente, capace di fare il suo lavoro senza metterci di mezzo tutto il resto.
Casomai anche in grado di sviluppare sentimenti, ma quelli belli, che vanno nella direzione della cura, dell’accudimento e dell’accoglienza.
Sant’Antonio, la prossima volta che fai la grazia alla bonne e la trasformi in colf, vedi di regolarti.
La storia racconta che ti implorò un uomo che non riusciva a montare a cavallo e che tu lo dotasti di tanta di quell’energia da farlo cadere dall’altra parte dell’animale.
Insomma, tu sei pure santo e sei stato un intellettuale facondo e ammirato.
Vedi se puoi arginare le chiacchiere, moderare i discorsi, convincere queste care donne a essere un po’ più riservate, far capire loro che non devono per forza intrattenere di continuo relazioni mondane.
Insomma, tu che predicavi pure ai pesci, predica presso di loro le virtù del silenzio.
Ci conto e di questo seguito di grazia ti ringrazio.