Virginia, l’altra. La ragazza del banco del forno si chiama Clarissa ed è leggermente fuori forma. Cicciottella, direbbe Irina/Irene. Ripete continuamente di essere giovane.
Non so se è per questo che mi dà del tu quando io le do del lei.
Sostiene di essere figlia di un’insegnante di latino e greco. Come possa una grecista aver tirato su una che parla quello slang che non è il romanesco di Trilussa e di Belli ma che è quella lingua parallela che a Roma parlano in tanti e che trovo ributtante, per me è un mistero.
Quando le ho detto che si chiamava come Mrs Dalloway mi ha guardata strana.
Forse la madre non ha trovato il coraggio di dirle che le aveva dato il nome di un personaggio di Virginia Woolf.
La capisco.
Stamattina le ho chiesto del pane di grano duro.
«C’ho solo questo», mi ha risposto mostrandomi una pagnottona.
«E quello che è?», ho indicato cortesemente, lì accanto.
«Quella è una baguette».
«Ma che tipo di pane è?».
«Di grano duro».
Non ho capito la logica e ho pensato che fosse meglio non insistere.
Ho detto «Allora per favore vorrei una baguette».
Di grano duro.
Come non sa chi è Clarissa, la ragazza che si chiama Clarissa è bene che non sappia, quando è alle prese con una baguette, che cos’è una baguette.
Effetto Sorbetto. La tensione deve essere quella giusta, come per una corda di violino. Se è lenta, lo strumento suona male. Se è troppo tirata, essa si spezza.
Se stai poco in tensione, l’energia difetta. Se ci stai troppo, l’energia ti si rivolta contro.
La mattina del 6 agosto era meglio non rivolgermi la parola. Mi sono detta tanto mi passa, ho tempo fino alle 18:30 per assestarmi.
Alle 18:29 ho cliccato Start this Meeting, poi, quando mi è apparsa la finestra, quattro secondi dopo, APRI URL: Zoom Launcher, ho cliccato pure quella.
La tensione si era tutta bella sistemata, era diventata tutta uguale e tutta ugualmente profonda, la sentivo dappertutto nel corpo, a partire dalla sommità della testa, fino ad arrivare sotto i piedi, che avevo nudi sul pavimento.
Alle 18:30 ho tirato giù la tendina More e ho cliccato Record.
In contemporanea ho aperto il microfono.
Poi è partito il Sorbetto.
Non ho incespicato.
Non ho sfonato.
Non ho sbagliato niente.
Dopo tre secondi la tensione si era allentata, dopo due, il carico si era trasformato nel gusto di godermi lo spettacolo.
E siamo rimasti io, il mio pubblico e lui: Diego Velázquez, el pintor des los pintores, il più grande di tutti.
(Fino a prova contraria).
Per la prima volta in vita mia tento la strada di un minicorso monografico di storia dell’arte nel mese di agosto: il MaxiSorbetto Velázquez.
Non potevo sapere come sarebbe andata.
A iscrizioni, è andata benissimo.
(Allora non è vero che in estate nessuno vuole fare niente).
Dopo quaranta minuti, a tempo scaduto, il mio computer ha convertito il file.
Mentre lui lavorava, sono andata ad aprirmi una bottiglia.
Quando sono tornata, il file era già a posto nella sua cartella. L’ho compresso e l’ho inviato a chi mi aveva chiesto la registrazione.
Le richieste, alcune erano già arrivate, altre, mano a mano, sono affluite nei giorni seguenti.
Non posso dirlo io, io non posso valutare che lezione ho fatto, mi è sembrata una lezione senza inciampi e in cui non ho sfonato.
Ma un sentimento caldo di riconoscenza è uscito fuori di fronte ad alcuni commenti. Perché qualcuno commenta.
Non è vero che commentano tutti, a me è accaduto tempo fa di ricevere un messaggio di una mia ex studentessa che diceva io ero fra quelli che non parlavano mai e che stavano sempre in fondo all’aula e ora, passati dieci anni, ho finalmente trovato il coraggio di dirle che.
E il messaggio diceva delle cose belle.
Lo raccontavo stamattina al ragazzo egiziano che mi lavava la bicicletta, tu fai un lavoro di soddisfazione immediata, cioè tu vedi subito il risultato di quello che fai; io impiego anni e anni, e certe volte il risultato non lo vedo mai.
Ma torniamo ai commenti sul Sorbetto.
Due amiche si sono date appuntamento, una è andata a prendere l’altra al lavoro e si sono sedute con il tablet all’aperto a piazza San Silvestro, nel centro di Roma, per degustarlo.
Una bellissima immagine.
Una persona mi ha scritto subito che aveva l’acquolina in bocca pensando al successivo.
Un’altra, che ha ascoltato la registrazione, ha detto che buono, con quattro o e un punto esclamativo e aveva premesso che il tempo era volato.
Ecco, pensavo di fare qualcosa di questi commenti, che sono generosi e che, soprattutto, escono fuori.
Perché nessuno è tenuto a dire che cosa pensa, a rigore, già un’iscrizione è un segno di adesione al progetto.
Però, che gusto, tirare le persone dalla parte dei sentimenti. Io sono una che li esprime, io chiamo il medico per dirgli che la cura ha funzionato e che sto meglio e il medico è contento.
Perché sennò passa la vita a sentire i guai dei pazienti e a parlare solo di malattie e mai di guarigione.
(Io sono una che dice mi fai stare bene, mi fai stare male, sento la tua mancanza).
Grazie a tutti coloro che hanno espresso il loro parere.
Lavoro meglio.
Confeziono Sorbetti più gustosi, più singolari, più al servizio dell’arte.
Perché, quello è.
Uno dice storia dell’arte e in tanti rispondono che meraviglia. Poi la praticano in pochi, chissà perché, è una disciplina chiusa, aristocratica, lontana dalla vita.
Poi, però, sono arrivati i Sorbetti.
La sera, inoltre, è successa la cosa più bella.
Un post della Wallace Collection di Londra, un museo squisito che ha un superbo Velázquez, ha pubblicato il suo dipinto.
Già così, a coincidenze, non andavamo male, è uno dei suoi capolavori e loro sono molto attivi nella comunicazione, però: proprio quella sera.
Ma il post diceva poi che in quel 6 agosto volevano ricordare il grandissimo pittore spagnolo, morto in quel giorno nel 1660.
Morto in quel giorno.
Cioè io, senza saperlo né volerlo, ero riuscita a servire la prima porzione del MaxiSorbetto il giorno medesimo della morte dell’artista.
Di solito guardo la nascita, mi interessa il segno zodiacale perché con alcuni vado più d’accordo.
(Infatti Velázquez è un Gemelli, così frequenti nella mia vita).
Comincerò anche a stare sempre attenta alla data di morte.
Stavolta, se mi fossi messa lì a tirare il calendario da una parte e dall’altra, non sarei riuscita nell’impresa: scegliere il giovedì come giorno dei Sorbetti; decidere di andare avanti in estate; lanciare un monogusto maxi; cominciare con Velázquez quando avrei potuto farlo con altri, Manet, Donatello, Caravaggio.
No. È andata così.
E sta andando benissimo.
Quando si dice: c’è un senso nella vita.
Pure quando la vita, lo sappiamo tutti, non ha senso.
La Newsletter del venerdì, ore 9:01, 02, 03. L’Uomo-marketing sta scrivendo newsletter bellissime. Complesse, stratificate, piene di idee e di spunti, ironiche, intelligenti, giocose. Secondo me le sue newsletter sono ancora più belle del solito perché, essendo estate, esse sono meno tecniche, ovvero lui lascia più libero il campo alla scrittura.
E gli ho scritto anch’io in risposta, e gli ho detto lei deve scrivere un romanzo, deve scrivere un romanzo, deve scrivere un romanzo.
Gliel’ho ripetuto tre volte.
E basta con questo marketing, ma che ce ne importa.
Scriva la sua autobiografia, lei fa una vita che a me già sembra così avventurosa e, se le serve più romance, prenda quel treno che lei spesso prende, sì, ma nell’altra direzione.
Insomma, venga a cena da me.
La sto invitando.
Se le serve più romance, venga a mangiare i miei spaghetti.
Le faccio anche scegliere la bottiglia.
E gliela lascio pure aprire.
Depression Pink (Glass). A digitare sorbetti vintage sulla barra di Google, c’è da passare la giornata tutta.
Chi l’avrebbe mai detto, che il mondo era pieno di sorbetti.
Ma lo sostiene pure Matteo, 7:8-18: chi cerca, trova.
(Poi, d’accordo, Picasso trovava senza cercare, ma lui era uno così, e poi chissà se la raccontava giusta).
Trovo, per esempio, una stampa squisita su un sito alimentato da una collezionista partenopea: si vede un venditore di sorbetti, sì, perché per strada vendevano di tutto, anche gelati e spaghetti e a Napoli non è che sia cambiato molto.
Ma ho dovuto fare appello a tutto il mio coraggio per ordinare, una volta, una premuta di limone, pregando, per favore, senza ghiaccio, il ghiaccio, che è fatto con l’acqua del rubinetto, mi terrorizza, già mi sono ammalata da ragazza per via di una certa libertà alimentare estiva, sono stata male mesi e poi ci sono ricaduta, insomma, non chiedetemi quello che non posso darvi.
Le cozze per strada dal cozzaro, pure se fa presepe, non le mangio.
Come mi raccomandò una donna esperta del mondo prima della mia partenza per la Cina: solo quello che è passato per il fuoco.
(Bello, fra l’altro, no?).
Insieme a una giacca nera, corta e stretta, di quelle che mi piacciono molto e che nel mio guardaroba ho già in abbondanza, marca Sherbet, ovvero, Sorbetto, trovo anche i vetri, e perché dovrei chiamarli bicchieri e non coppe, Pink Depression.
Colpa del traduttore automatico, che non avevo nemmeno richiesto.
Ma fatela finita, con questi attentati alla lingua.
Impiego almeno tre minuti a capire, perché Pink Depression mi affascina.
E come potrebbe non catturarmi.
Ma in verità stiamo parlando non di uno stato d’animo ma di una tecnica, per la precisione quella del vetro pressato, che è una lavorazione del vetro dell’inizio del secolo XIX.
I risultati sono incantevoli, capricciosi e variati, insomma, come niente, tutti ne avete in casa qualche esempio.
Sì, però, poi c’è il Depression Pink e non ha importanza se è un vetro.
Ad analizzare sul serio i sentimenti, io, che sono quasi sempre triste, di rado sono depressa.
Sei depresso quando non riesci ad alzarti dal letto la mattina.
Ciò che, se ho qualcosa di interessante da fare, a me riesce invece facilmente.
Poi, però, bisogna vedere se questa mia affermazione non sia troppo ottimistica.
Ma è la settimana di Ferragosto e tutti i giochi sono aperti.
E poi il set di bicchieri da sorbetto di vetro pressato Pink Depression è stato già venduto e la mia è, dunque, una trovata (ovvero, una scoperta) postuma.
Ed è meglio così.
Perché mi considero postuma anch’io, ovvero già vissuta e arrivata dopo che già si è consumata la tragedia.
Perché, a tragedia consumata, e a sipario calato, è lì che si gioca l’esistenza. Che cosa c’è di più bello, avvolgente, pure amaro, d’accordo, ma perché tutto deve essere dolce, quando, da postumi, ci diciamo eppure siamo qui.
Eppure, ancora una volta e nonostante tutto: dimmi che è vero.
Che siamo ancora qui e che abbiamo ancora tante cose di cui parlare.