Se avessi avuto una sorella gemella, l’avrei strozzata in culla

I Puffi sono tutti uguali.
Solo il grande Puffo ha la barba e si distingue per questo.
Anche se a me sembrano tutti uguali gli uomini con la barba.
(Con un paio di eccezioni).
«Quello con la barba», in effetti, ti confonde le idee.
L’uguaglianza dei Puffi è il principio base della loro società. A detta di Peyo, il loro inventore, ciò rende indispensabile concentrarsi sui sentimenti di ciascuno di loro in modo da poterli riconoscere.
Pensiero poetico, che chissà se è esportabile.
Una volta un amico mi raccontò che la Puffetta aveva avuto un’avventura con uno dei Puffi ma non si ricordava più quale.
Secondo me lui mi stava facendo un discorso allusivo e io avevo pure capito dove voleva andare a parare.
Ciò non toglie che da allora la Puffetta cominciò a sembrarmi una Puffa di facili costumi.

Quando io telefono al tecnico della televisione mi presento anche con l’indirizzo.

Da quando il ragazzo che ha cominciato da poco a lavorare in garage mi ha confessato che con la mascherina faceva fatica a distinguere i clienti, ogni volta che chiamo per dire che voglio uscire e mi risponde lui, a scanso di equivoci, mi presento con nome, cognome, tipo e colore di macchina.
L’altro giorno lui mi ha detto che a me mi riconosce benissimo e meno male, non sopporto di essere confusa con un’altra.

I nuotatori di livello olimpionico sono tutti uguali: armadi quattrostagioni, cuffia, occhialetti, glabri come polli nel polistirolo.
Forse è per questo che il nuoto è così noioso.

Mark Spitz

In confronto a loro, uno come Mark Spitz diventa di botto il re del sex appeal, insomma, sei costretto a considerarlo per la sua unicità.
In ogni caso, un altro punto a favore del calcio. Una volta avevo parcheggiando la macchina vicino al Parco dei Principi, albergo romano in origine disegnato da Gio Ponti, e sono capitata in mezzo a un gruppo nutrito di giovani maschi, atletici, uno alto, uno basso, uno con le spalle larghe, l’altro quasi mingherlino.
Il portiere, quello dell’albergo, da me interpellato, mi spiegò che erano non mi ricordo più quale squadra che io, conciati com’erano, non avevo riconosciuto.
Resta che forse i calciatori hanno tutti le gambe uguali, però quel giorno, vestiti di tutto punto, non si vedeva.

I cinesi sono tutti uguali.
Uno dei miei periodi più faticosi fu quando feci il propedeutico di Storia dell’arte per loro all’Accademia di Napoli.
A parte l’andare e venire tutti i giorni (e il giorno che fu San Gennaro, 19 settembre, lo accolsi come il magazziniere del supermercato accoglie il turno di riposo), ci si metteva pure il direttore, che quando mi vedeva si metteva a ridere e mi diceva: «ti stanno venendo gli occhi a mandorla».
Inoltre.
Avevo l’interprete e sospettavo che lei non traducesse quello che io dicevo: la prova era che io facevo frasi brevi, chiare, nette e che lei impiegava dieci minuti buoni a metterle in lingua.
Inoltre, non capivo quale era l’uno e quale l’altro.
L’interprete la riconoscevo perché era una ragazza alta e perché tutte le mattine mi aspettava nel Giardino dell’Accademia, un po’ come il brigante ti aspetta per farti l’agguato nella foresta.
Un giorno, esasperata e sebbene il collega dell’aula accanto mi avesse detto che non potevo chiedere una cosa così, la cosa così la chiesi.
Chiesi ai cinesi se pure noi sembravamo tutti uguali.
Come avevo intuito, mi risposero di sì.
Un luogo da incubo: non solo tutti uguali gli studenti, ma anche tutti uguali i professori.

Quando ancora davo un’occhiata alla televisione, notai che tutte le concorrenti di Miss Italia erano uguali.
Cosa che, a giudicare dalle foto degli anni ’50, mica succedeva.
Spesso ho l’impressione che tutte le mie studentesse si somiglino (con i maschi la cosa è un po’ diversa): l’anno passato, in un corso non riuscivo a distinguere quattro ragazze una dall’altra, tutte con i capelli scuri e lunghi, tutte un po’ così, sono sicura di essermi confusa più di una volta, chissà se se ne sono mai accorte.
E che nessuno venga a dirmi che sono una distratta e poco attenta ai dettagli, ma figuriamoci, io tutto osservo e passo alla lente.
Credo che la colpa sia loro e che sia una questione di anime e di cervello.

Ancora in Accademia, ancora a Napoli, ebbi discussioni di non poco conto con il Coordinatore a proposito di due coppie di gemelle che, per due anni di seguito, si presentarono alle prove di ammissione.
Io ero sicura che nella coppia di quelle piccolette una sola sapeva disegnare e che a metà mattina le due si erano scambiate di posto in modo che quella abile facesse il figurino dell’altra.
Proposi di ammetterne una sola.
Il Coordinatore mi disse che erano gemelle e che non potevamo dividerle.
Io gli detti del pervertito, se una fa sempre quello che fa l’altra, a noi che cosa ce ne importava.
Quello era un ricatto.
Fra l’altro secondo me erano tutte e due somare (la storia mi avrebbe dato ragione).
L’anno dopo, agli esami si presentarono le due un po’ più alte, tutte e due in preda all’ansia, un po’ tremanti.
Identiche.
Avevano inoltre un solo manuale.
Lì, esplosi.
Chiesi loro se avevano un solo fidanzato.
Un solo telefono.
Un solo paio di mutande.
Più quelle tremavano, più pensavo adesso le caccio.
Si fecero giustizia da sole.
Avevano mandato a memoria una piccola scheda biografica di YSL e quando chiesi loro che diavolo fosse il nonnismo di cui il couturier era stato vittima durante il servizio militare (lo avevano citato loro), non riuscirono a spiaccicar parola.
La mia teoria è che non c’è niente di male se, in una coppia di gemelli, uno fa lo stilista e l’altro il veterinario.
Oppure se tutti e due vanno a fare altro.

I gemelli mi mettono inquietudine.
Non mi ricordo mai qual è l’uno e qual è l’altro, chi fa che cosa, più mi concentro, più mi sfuggono le attitudini.

Shining

La mia idea dei gemelli è quella di Shining quando sono all’erta, quella di Harry Potter, quando sto più tranquilla.
I gemelli di quest’ultimo, entrambi rossi, hanno la scriminatura dei capelli uno a destra e uno a sinistra. Se non ricordo male, ciò su richiesta di un professore, che li vuole distinguere.

Diane Arbus, Twins, 1967

Inutile dire che i due si scambiano la riga tutte le volte che vogliono mettere in difficoltà il docente.

E nemmeno sto a citare i gemelli di Diane Arbus, i più inquietanti di tutti.

Sono fra gli appassionati sostenitori del nessun figlio.
Fra i vari vantaggi, ti resta un sacco di tempo per occuparti di altro.
Sostengo anche il figlio unico.
Anche se pure lì corri il rischio che la femmina te la ritrovi con il birignao di tua cognata.
Conosco casi di difetti ereditati trasversalmente, per cui, che ne so, ti scopri con un figlio che ha un problema all’arcata dentaria identico a quello di uno zio paterno di cui tu nemmeno sospettavi l’esistenza.
Un paio di volte che ero sufficientemente in confidenza, a fronte di tre o quattro figlie femmine ho chiesto ai rispettivi padri che cosa pensavano fra sé e sé quando pensavano sinceramente.
A quello delle tre figlie, due delle quali gemelle, ho anche detto che se fossi stata io la moglie, una l’avrei lasciata in clinica dicendo pensateci voi.
Non conosceva questa mia avversione al mettersi scientemente in casa un pollaio quel tipo che una volta, in un pranzo, si mise a raccontare, me presente, della coppia che aveva già due figlie femmine e che stava tentando di avere un altro figlio perché volevano il maschio.
Inseminazione artificiale.
Risultato: due gemelle.
Non riuscii a trattenermi e dovetti scusarmi per le risate che non riuscii a frenare.

Purché non me le mandiate tutte in Accademia.

E guardate che vi parla una che ha un guardaroba seriale, quattro T-shirt tutte della medesima marca e della medesima taglia, la S pure se ho le spalle larghe; tutti i top di cotone e di seta uguali; le calze, manco a parlarne; tutti blue jeans di cui solo io conosco la differenza; tutte scarpe uguali con i lacci.

Ma per gli esseri viventi è altro.
Se un naso aquilino è volitivo e dà carattere, quattro nasi aquilini a tavola mi spingono a cercare freneticamente l’uscita di sicurezza.
La bellezza, moltiplicata, si banalizza; la bruttezza, si accentua.

Si somigliano cane e padrone.
Moglie e marito si somigliano.
La mia teoria è che, progressivamente, il padrone si identifichi sempre più con il cane e che i coniugi vadano insieme a fare acquisti.
Infatti, di questo ho fatto esperienza, a un certo punto di una separazione il coniuge comincia a comprarsi le camicie da solo e tu cominci a pensare ma guarda tu questo come si veste male, mica me ne ero accorta.
Un’altra mia teoria è che le storie d’amore comincino con un «ma non ci siamo già visti da qualche parte» e che finiscano con un «non ti riconosco più».

La cosa più carina accadde con la mia ultima gatta, era nera e si chiamava Perlascura.
Rimase incinta a seguito di un’avventura estiva che era nota a tutti perché lei era giovanissima e c’era questo gattone rosso di campagna che nelle sere di luna la veniva a chiamare dal prato sotto casa e poi se ne andavano in giro insieme fino all’alba.
Dopo sessantatré giorni di calendario nacquero quattro micetti, tutti grigi a strisce, tutti uguali.
Zibibbo, Malvasia, Brachetto e Marzemino.
Quando fu ora di darli via, cominciò la confusione.
Per distinguere i gattini, avevo messo loro al collo dei fiocchetti di colore diverso.
La signora filippina che in quel periodo aiutava in casa aveva deciso di adottare una delle femmine. L’avrebbe portata al paese del fidanzato.
Il giorno in cui lei venne a prenderla, io non c’ero.
Ma avevo lasciato un biglietto con scritto chiaramente il colore del nastro che la gattina aveva al collo.
Quando rientrai, i cuccioli erano diminuiti e i nastri erano stati scambiati.
La signora mi spiegò dopo che certamente io mi ero sbagliata e che la micetta da lei scelta era un’altra. Dunque, aveva provveduto a risistemare le cose.
Fu allora che minacciai la gatta nera dicendole che non l’avrei più fatta uscire da casa.
Se proprio voleva figliare, almeno figliasse figli riconoscibili l’uno dall’altro.

E che diamine, con tutta la varietà di gatti che c’è in giro: manco fossero umani, nasi aquilini tutti uguali.
E tutti gemelli.