Quadro I. Per prima cosa Venezia, che ormai per me rientra nel novero dei luoghi pornografici.
Mi spiego.
La definizione più bella di pornografia l’ho sentita alla radio in una piccola serie a essa dedicata.
Un uomo, alla domanda «che cos’è la pornografia», risponde: «Non saprei spiegarmi, ma quando la vedo, la riconosco».
Io ho cercato di essere più precisa. E considero pornografiche le città votate a una monocultura. Dunque, è pornografico il quartiere a luci rosse di Amsterdam, nessuno potrebbe avere dubbi in proposito; ma è pornografica anche Las Vegas: solo gioco d’azzardo; è pornografica L’Aquila: solo studenti; sono pornografiche Firenze e Venezia: solo turismo.
Pornografico nel senso di maniaco, frammentato, inquadrato in primo piano, ripetitivo, noioso.
Ecco, Venezia.
L’ho amata per Corto Maltese e per Brodskij, prendevo un treno, avevo una stanza più o meno riservata in un hotel magnifico, arrivavo, sprofondavo in una di quelle loro poltrone di velluto rosa che erano uno dei principali motivi per cui amavo quell’albergo e mi mettevo a leggere Fondamenta degli Incurabili.
«Viaggiare sull’acqua, anche per brevi distanze, ha sempre qualcosa di primordiale. Senti che non dovresti essere lì, e a dirtelo non sono tanto gli occhi, gli orecchi, il naso, il palato o il palmo della mano quanto i piedi, i quali assumono, stranamente, la funzione di un organo dei sensi. L’acqua mette in discussione il principio di orizzontalità, specialmente di notte, quando la sua superficie somiglia a un selciato. ».
E a Venezia si viaggia costantemente sull’acqua.
Si viaggiava perché, per quanto mi riguarda, io a Venezia non ci vado più.
Perché la considero pornografica e la pornografia non mi diverte.
Anche se ho tenuto attaccato sullo specchio del guardaroba il mio ritaglio che dice Quando lui mi ha detto Venezia, ho realizzato che non avevo niente da mettermi.
L’ho tenuto per simpatia, certo non nei confronti di Venezia.
E, comunque, io, da quando ho smesso di pensare che non avevo niente da mettermi, so sempre che cosa indossare.
Quadro II. Ho conosciuto la mia blogger (blogeuse) prediletta per via di una rubrica del suo blog che apprezzavo molto.
Essa si intitolava Les films bien sapés, che tradotto significa I film ben conciati.
Lei aveva il suo blog, uno dei primi della blogosfera, e scriveva quello che le passava per la mente. Si occupava di moda e le piaceva vedere film, quindi li guardava e faceva foto con il telefono, poi raccontava come erano vestiti i personaggi.
E lo faceva in modo geniale, immediato, artigianale, con un intuito clamoroso.
Dunque non mi ha stupito che lei avesse duemila accessi al giorno (una cifra oggi impensabile), e che lei, a un certo punto, sia stata chiamata a lavorare a L’Express, un settimanale di cultura politica e altro, nella redazione del quale è rimasta dieci anni.
Poi si è licenziata e per un breve periodo è stata la plume invitée, che vuol dire la penna invitata, di una marca.
Dopo poco è diventata free lance, l’ha comunicato e ha detto che ormai si sentiva pronta: «Ho, anche e soprattutto, voglia di aprirmi a una quantità di progetti differenti: collaborare con delle marche, con dei media, scrivere un nuovo libro, misurarmi con un podcast. Sono curiosa di scoprirmi dove gli altri mi vedono. Cerco di non mettermi più né freni né limiti».
Ho trovato tutto questo, scritto in una newsletter, molto bello ma la sera ho annotato sul mio diario «Géraldine farebbe lo stesso se stesse in Italia?».
Nessuna risposta.
Quadro III. Géraldine Dormoy si occupa di moda quindi ogni sei mesi comunica ai suoi lettori che cosa ha acquistato di nuovo per il suo guardaroba. E ciò pure se lei, mettendosi sotto una lente, ha analizzato i motivi di tutti i suoi acquisti.
A questo dobbiamo aggiungere che lei, in tutti questi anni, si è sposata, ha avuto un bambino, si è ammalata di cancro, è guarita e ha cambiato abitudini e modo di pensare.
Ma les fringues, che sono gli abiti, i vestiti, la roba che uno si mette addosso, continuano a esercitare su di lei un certo appeal.
Dunque è arrivata la lettera con l’elenco delle novità, ciascuna delle quali corredata di una foto di una modella e di una serie di riflessioni, tutte serie, sul perché, mettiamo, aveva avuto voglia di quella camicetta piena di fronzoli, che con i suoi capelli corti corti, rimasti dalla chemioterapia, alla fine stava benissimo.
Eccetera.
Dico solo che non ho letto tutto perché mi ero stufata, troppa roba, una quantità di roba da mettersi addosso ma rimanerci soffocati sotto.
Però mi sono detta adesso faccio lo stesso io sul mio blog: scrivo l’elenco dei miei acquisti di abbigliamento degli ultimi sei mesi.
Quadro IV. L’elenco dei miei acquisti di abbigliamento degli ultimi sei mesi non è in grado di annoiare nessuno per il semplice motivo che è brevissimo.
Provo a farlo.
- Due paia di blue jeans, stranamente, perché di solito mi fermo a un solo paio. Il secondo, in effetti, il primo, l’ho preso in internet, non pensavo che mi stesse così bene. Sono un’abitudinaria, quindi è successo quello che doveva succedere: ho indossato per un mese i blue jeans che mi ero comprata in estate in negozio, poi mi sono ricordata di quelli che avevo comprato prima di partire. Ho cominciato a indossarli e ce li ho ancora addosso. Me li cambierò quando li porterò a lavare. In lavanderia, rigorosamente, come sempre faccio
- Una T-shirt marine, identica a un’altra che già avevo
- Due paia di scarpe, le solite che porto sempre. Un paio me lo ha regalato l’azienda, alla quale avevo portato indietro un altro paio di scarpe identiche che secondo me avevano un difetto di fabbricazione. Anche secondo loro e infatti, dopo un paio di mesi, mi hanno telefonato per dirmi che avevo un buono acquisto che mi aspettava in negozio.
Questo è il solo motivo per cui ho due paia di scarpe nuove. Perché altrimenti me ne sarebbe bastato un paio solo.
Ma porto anche scarpe diverse da queste? Certo che sì, porto pure i tacchi, ma solo in occasioni speciali che non sto a rivelare. - Sottolineo, nessuna sciarpa. E solo perché ad agosto ho trovato chiuso il negozio a Palais Royal. Meglio così, ne ho una quantità industriale e pure lì vado d’abitudine, me ne piace una e la porto per venti giorni di seguito.
Senza stancarmi - Ma mi sono comprata una maglia nera, fra l’altro della marca per cui Géraldine fa la plume invitée, ho pensato che fosse una buona scelta, lei suscita in me un grande sentimento misto di onestà e di simpatia.
Ovvio che ho una certa quantità di maglie nere, secondo me esse risolvono il guardaroba, stanno bene con tutto, ci vai all’opera e in Accademia, nessuno nota mai la differenza, meglio così, sono affezionata al concetto di uniforme, guardate bene, tutta la gente della moda la adotta, predicano bene e razzolano meglio: i clienti, sempre a rincorrere le novità; loro, con addosso la roba vecchia che amano e nella quale si sentono bene
Epilogo. Le donne che si cambiano di continuo mi sfiniscono. Ma che ci fate, con tutti quei vestiti e con tutte quelle scarpe.
Anche perché non siete mai contente.
Come abbiamo già detto, figuriamoci se non lo abbiamo detto più di una volta, tutto al mondo è sessuato, gli ambienti della casa, le città, i cibi, gli strumenti musicali.
Figuriamoci gli abiti.
E, a questa teoria aderisco entusiasticamente, le donne non sanno mai che cosa mettersi perché hanno gli organi sessuali interni, quindi, metaforicamente, non vedono quello che, letteralmente, hanno in guardaroba.
Gli uomini, invece.
Loro, sì.
Loro sì, che hanno tutto squadernato sotto il naso.
Sto parlando, si capisce, di pantaloni, di camicie e di giacche.Però, datemi retta, procuratevi una maglia nera che vi piaccia: la mia ha i bottoni di madreperla, è morbida morbida, si abbottona e si sbottona a seconda delle necessità.
E va con tutto.
Non l’ho ancora lavata, nel senso che da quando mi è arrivata non l’ho più tolta e l’ho lavata a pezzi, avvolgendo questi ultimi nella spugna, covando l’asciugatura, controllando che tutto fosse in ordine.
Questo è il rimedio a non so mai che mettermi.
Un solo capo d’ abbigliamento, ma quello giusto.
E non venitemi a dire che non vi era mai venuto in mente.